Poesia. Francesca Innocenti - Francesca Innocenti. Poesia esistenziale, mossa da una profonda, eppure pudica, inquietudine
Benassi Luca Domenica, 07/04/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2013
Alcune poesie sanno entrare nel cuore di chi legge con passo lieve, accarezzando l’emozione con il suono della parola, con immagini attente cadenzate nel trascorrere delle stagioni, del cadere della neve, del passaggio delle nuvole. Francesca Innocenti, nata a Jesi nel 1980, curatrice di antologie di poesia Rom e direttora della collana “la scatola delle parole” di Edizioni Progetto Cultura, ci offre un canzoniere ambiguo fin dal titolo, “Cerimonia del commiato”, fatto di passioni, ma anche di languidi abbandoni, di distanze, di misteriose solitudini. Scrive Manuel Cohen nella nota che introduce il volume: “poesia di taglio squisitamente esistenziale, mossa da una profonda, eppure pudica, inquietudine e segnata intimamente dalla frequenza-sequenza della dialettica vita-morte, quella della Innocenzi, intenta a registrare nella filigrana della voce, e attraverso un elegante e paziente artigianato della parola, la difficoltà e l’esperienza di vivere, le ferite del tempo e delle ore. Costante è il tentativo, già avvertibile a livello di scelte lessicali chiare e fruibili, eppure eleganti e non ovvie nella sintassi, di lanciare un ponte, una corda, un filo di comunicazione tra il sé e l’altro da sé, instaurando un rapporto di reciprocità tra l’io di chi scrive e la complessità del mondo.” Effettivamente questa poesia si getta nel rapporto con l’alterità, cercando di afferrarne l’essenza, il nocciolo della esistenza che finisce per incidere il corpo, il senso, la solitudine. Vi si percepisce, a tratti, un’inquieta cupezza, il tentativo sempre incompiuto di colmare una distanza, quella insondabile che separa la vita e la morte, quella dell’amore, quella assai più terrena di un incontro fatto di condivisione (“ci siano leggere queste carni/ e la vita”) attraverso il quale mettere a tacere “ferraglie stridenti di corpo”. Poesia esistenzialista, certamente, ma che fa dell’esperienza materiale e fisica di un io corporeo l’oggetto principale di questo cerimoniale della parola, dell’incontro e della lontananza.
Correttamente Cohen parla di ‘artigianato della parola’, ed in effetti Innocenti veste l’ambito di un endecasillabo vissuto con perizia e leggerezza, richiamandosi alla grande tradizione italiana, dalle petrarchiste del Cinquecento al conterraneo Leopardi, ma rifacendosi alla sonora fisicità della poesia luziana, anche per certe rarefazioni, certe assolutezze di immagini, che però sempre si ancorano al dato naturale, alle colline, al vento, ai corsi d’acqua. Vi è in questo una dimensione prettamente leopardiana, e forse marchigiana (Innocenti è anche curatrice di un’antologia di poeti marchigiani), una capacità di elevarsi al di sopra del dato personalissimo e biografico, al limite dell’intimismo esistenziale, per farsi poesia collettiva, “crosta del comune sentire”, nella quale ogni lettore può riconoscersi e trovare momenti di straordinaria intensità.
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