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La parola alchemica

La parola alchemica

Letizia Leone - Poesie minerali, dai tratti cupi e preveggenti, che indagano la nostra sfibrata modernità

Benassi Luca Domenica, 11/12/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2011

“La disgrazia elementare” (Giulio Perrone, Roma 2011) è un libro importante nella produzione di Letizia Leone: raccogliendo “L’ora minerale” (il filo, Roma 2003), insieme a testi e sequenze inedite, sistematizza una parte corposa della scrittura della poetessa romana, non in senso antologico, ma attraverso un’architettura complessa, unitaria per temi e accenti. È possibile, nel leggere questa nuova fatica, enucleare alcuni aspetti fondanti della poetica della Leone. Vi è, innanzitutto, l’apparenza ‘minerale’, ossuta, calcificata, alchimista della Leone, che l’avvicina a quelle poetiche della natura di Pier Luigi Bacchini e in parte Giampiero Neri, che trovano nell’approccio scientifico alla realtà, di ascendenza lucreziana, una modalità di scrittura poetica. È una natura, quella della Leone, devastata dalle attività umane e versata a mostrare il tratto ostile degli elementi e forze primordiali che l’umanità si ostina a governare o sfruttare a suo vantaggio: si veda in proposito il testo sul disastro nucleare di Fukuscima. Ne emerge una continua riflessione sul rapporto fra essere umano e natura, fra logos e l’essenza atomica, particellare, delle forze che regolano massa ed energia, in ultima analisi sul rapporto fra l’essere umano e il divino.

L’essere umano della Leone, vittima della sua ‘ubris’, vive in un atmosfera lugubre, gotica, dove i corpi diventano “anemoni di carne degli obitori” e ricordano le autopsie di Benn. Vi è una densità a tratti umbratile, scura, plumbea, inquietamente nefasta, ricca di minacciosi presagi ed immagini cupe. Si tratta di una poesia fatta di nervi, muscoli, sangue - non è un caso che sia proprio la sequenza sullo scuoiamento di Marzia ad aprire la raccolta - che mette in luce le macerazioni, le contratture, le macellazioni, i decadimenti, le decomposizioni, e si fa interprete di una “sfibrata modernità”, scrive Plinio Perilli nella postfazione, mediante una “graveolente autopsia del nostro secolo”. Questa poesia raccoglie immagini portate all’eccesso, mette sulla pagina un cromatismo suppurante che emerge dai neri, dai chiaroscuri, attraverso fasci di luce, rossi e verdi, con versi lunghi alternati ad altri brevi e brevissimi. Vi troverà chi legge addensamenti barocchi, caravaggeschi, e non a caso a chiudere il libro vi sono degli studi in endecasillabi sulla conversione di San Matteo del Caravaggio. Questo libro stupisce, a tratti fa paura, è prospettico, sbalzato sul nero; ci fa riconoscere una voce, uno stile, un mondo, una eccellente poetessa.





Ti sei ridotto così, a camminare

con il contatore Geiger sulle spalle

e i fiori di ciliegio

dischiusi oggi a Tokio, come sempre.



Dolorosamente questo 28 marzo è

primavera.



Ogni fantasma nucleare è grande

si muove solo per disintegrare

ma se accade che ti senti il fiato sul collo

dei raggi gamma

è solo un’impressione:

sono veri portenti di fantasmi grandi questi

spettri senza lenzuolo,

si muovono per penetrazione

nella normalità che vedi intorno

loro rosicchiano entrano escono dai portali d’acciaio

spesse montagne

che avevi sigillato.



E magari nella finta paralisi

di gemme scoppiate anzitempo

qualche scienziato ancora ti convincerà

che non esiste un aldilà.





forse il puro metallo del Pensiero

quel fuoco che ha striato porfidi

e dai cristalli dagli occhi dalle acque

ha creato a sé le specie

a infarsi

raccoglie la tua ispirazione

a scrivere algebre sul cuoio

per l’eco minima di questa mente

che uncina

cerca ganci

incatena ogni senso ad una cifra.







Poeta patologo.



Corpi aperti sui tavoli

sterili

anemoni di carne degli obitori

e un cervello sgusciato

la sua forma ancestrale e dedalica

emersa dal sangue

nella tua mano

sotto la volta svuotata come cranio

del sotterraneo

brivido.

Così attecchisce

dentro questa stanza di guerra

l’infinito dei mondi

le sue formazioni

col dorso che affiora dei sogni ionici

quale resurrezione;

o collasso

di chi vuole capire

il senso avido dei presagi

stirando le geometrie sterminate

di pieghe e circonvoluzioni

di un encefalo essiccato.



Allora vedi:

se da un lato il dio sole stria e dardeggia

gli smeraldi sulle coppe regali;

dall’altro

si schiudono di notte occhi bianchi

al diffuso lumine lunare;



se da un lato

spezie odorose azzurrano i cortili

mediterranei;

dall’altro organi grigi galleggiano

nei vasi refrigerati

in magazzini che non hanno luce.



Rientri da solo

attraversi la via ghiacciata

tra i detriti di cocci e di croci

mentre la primavera berlinese scongela

con i cadaveri la neve.



E tu ne rivivi

tutta la malattia di statua

la notte

di ogni morte.









Conchiglia



Braccia di mare

come in una fossa

lemure sonoro

quell’andare e venire terrestre



al cielo di spume

d’acque disincarnate:

l’urto spalancato dei venti

ha lustrato raschiato liscio

alla madreperla

un corno cieco

teschio

in sorte di conchiglia.



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