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LA PANDEMIA DA IPV  -  di  UDI (Unione Donne in Italia / Modena)

LA PANDEMIA DA IPV - di UDI (Unione Donne in Italia / Modena)

"Dodici le donne uccise per mano maschile da fine febbraio, in questi due mesi di isolamento forzato, segregate in casa con i loro aguzzini. La cronaca dedica loro una fugace notorietà....."

Mercoledi, 06/05/2020 - Riceviamo e pubblichiamo

LA PANDEMIA DA IPV
UDI – Unione Donne in Italia – Modena Aps


C’è una pandemia nella pandemia che continua a mietere vittime. Un virus per il quale non sembra esserci la stessa urgenza e determinazione a contenerne la diffusione, tant’è che continua indisturbata dalla notte dei tempi. Ma non pare essere una questione di salute pubblica. Forse perché interessa prevalentemente quella metà del cielo che per predestinazione “maschile” non conta abbastanza. I numeri parlano di uno stillicidio di morti che si mantiene pressoché costante, con curva epidemica tutt’al più tendente al rialzo, il cui trend - annuale e sempre approssimativo e controverso- al massimo trova qualche risonanza in giornate istituzionalmente dedicate. Stiamo forse puntando all’immunità di gregge, lasciando che il virus della violenza maschile sulle donne mieta le sue vittime “più fragili” (quelle che non denunciano, che, inette, hanno scelto un partner violento, che se la sono cercata, insomma)? Oltretutto sembra che il lockdown, pensato per il contenimento del Coronavirus, ne favorisca la virulenza, dal momento che è proprio lì, tra le pareti domestiche, che trova il suo terreno di coltura. Sarebbe interessante applicare le stesse strategie di analisi della diffusione della pandemia da Covid- 19, su cui i media ci aggiornano minuto per minuto, al fenomeno della IPV, acronimo che sta per Intimate Partner Violence. IPV. Fa più virus detta così? Perché di virus si tratta, benché non isolabile in laboratorio. Un virus trasmissibile anche a distanza, favorito addirittura dal web e dalle nuove tecnologie digitali, per cui non serve il distanziamento sociale, ma servirebbe piuttosto il distanziamento culturale dagli stereotipi sessisti che, per restare nella metafora del virus, impediscono il formarsi di anticorpi a livello sociale e, di conseguenza, individuale. Ciò di cui dovremmo innanzitutto preoccuparci è di contenere il contagio, stanando i portatori sani, gli asintomatici, i falsi negativi che contribuiscono alla diffusione della pandemia. Quelli che, per restare nell’attualità, escludono le donne dai tavoli decisionali che pure le riguardano, che, dando per scontato il lavoro di cura, reso anche più gravoso dal lockdown, come servizio gratuito connaturato all’identità femminile, allargano la forbice del gap gender. Sono -siamo- tanti e tante, donne incluse, e ciascuno di noi dovrebbe disporre di un tampone quotidiano per verificare lo stato di salute in ordine a pregiudizi misogini, che, più o meno colpevolmente, favoriscono la diffusione della violenza maschile sulle donne. Dodici le donne uccise per mano maschile da fine febbraio, in questi due mesi di isolamento forzato, segregate in casa con i loro aguzzini. La cronaca dedica loro una fugace notorietà, per l’irrinunciabile gusto al fattaccio di sangue. Perché, in fin dei conti, non sono cose che riteniamo riguardino l’intera collettività e per primi i cronisti si affrettano a smorzare i toni, offrendo prontamente i soliti obsoleti moventi a giustificazione. È un nemico invisibile la violenza sulle donne che pensiamo di sconfiggere negandone la pervasività, occultandone e minimizzandone gli effetti devastanti non solo sulle vittime, ma anche su chi resta, congiunti in primis, spesso minorenni destinati a convivere con il doppio stigma di orfani di madre e figli di un assassino. Nove di queste donne sono state trucidate da partner o ex partner, tre dal proprio figlio, con le modalità efferate alle quali tuttavia siamo assuefatti al punto da considerarli paradossalmente “normali” incidenti di percorso che esulano dalla “normalità”. Così quando un uomo elimina la donna con la quale ha o ha avuto legami affettivi ricorrendo all’uso di pistole, fucili, coltelli o con furia belluina la massacra a calci, pugni, martellate, la strangola a mani nude, la decapita, ci affrettiamo a ricomporre la mappa dei nostri modelli culturali, scombussolata dall’assurdità della tragedia, relegando il crimine nell’ambito della patologia, della devianza ( raptus, abuso di alcool e droghe, Coronavirus!) o presumendo colpe nella vittima che lo legittimino ( “L’ha giustiziata”). Ci si ostina a non voler vedere in questi femminicidi, pur così frequenti, una brutale manifestazione di protervia tesa a ribadire una pretesa superiorità maschile. Superiorità contraddetta proprio dalla meschina vigliaccheria di una violenza inaudita contro una persona disarmata e indifesa, resa anche più vulnerabile dal rapporto di intimità. Si tratta di un’affermazione delirante di quel potere di vita e di morte sulla donna e sui figli che ha radici patriarcali e che esce con evidenza dagli omicidi-suicidi, che talvolta non risparmiano neppure i figli (due nel periodo considerato). Gesto estremo, conclusivo di un lungo percorso di prevaricazione, di controllo soffocante e limitazione della libertà di una donna considerata ammennicolo di un sé tanto prepotente quanto debole. Ciò che connota la violenza maschile nelle relazioni intime è il nesso inscindibile con l’istituzionalizzazione di ruoli e rapporti tra uomini e donne, che trovano nella famiglia tradizionale e nel suo impianto rigidamente gerarchico enfasi e ragione. È frutto della strutturazione di questi rapporti l’esplosione di aggressività che nasce dall’incapacità maschile di sopportare il confronto con l’alterità della partner, con la sua autonomia, temuta come negazione di un potere, di una superiorità dogmatica messa a dura prova dalla soggettività femminile. Un potere, onore e onere al tempo stesso, che implica uno stato di perenne conflitto e competizione, da cui derivano ansia da prestazione, frustrazione, perdurante senso di precarietà. Scrive Stefano Ciccone in “Essere maschi. Tra potere e libertà”: “ La violenza nelle relazioni tra uomini e donne è evidentemente frutto di dinamiche complesse e diversificate. Il tentativo di produrne una lettura politica non può cancellare la peculiarità delle mille storie singole. Eppure, dovendo cercare una nota comune, non vedo nella violenza l’espressione della solidità del dominio. Sento al contrario nella violenza maschile un fondo di debolezza, di frustrazione. Questo non mi appare come un’attenuante, ma come un elemento che la rende ancora più odiosa: una sorta di ipocrisia che dissimula l’incapacità ad assumere la responsabilità dei propri limiti, dei propri fallimenti, delle proprie dipendenze. L’esplosione della violenza emerge non come dispositivo capace di riaffermare un equilibrio, un controllo, ma rivela l’incapacità a misurarsi con l’alterità e con quelle parti di se stessi che il dominio ha permesso -o imposto- di occultare.” Analizzando il contesto e il movente invocato nella maggior parte di questi atroci delitti, appare con evidenza disarmante la pochezza degli esemplari di maschio che li compiono, la fragilità di una virilità che trova senso solo nel potere esercitato con la sopraffazione, nell’imposizione di una superiorità fondata sulla frode di una naturale inferiorità femminile. E quando la menzogna si scontra con la verità, al re, costretto a guardare la sua nudità impotente, rimane solo il gesto estremo della belva, nel disperato tentativo di salvare se stesso e la menzogna che lo fa sentire uomo nel consesso dei pari. Quel movente, la gelosia, che prontamente si antepone all’accertamento dei fatti, suona come rivalsa di un diritto che si ritiene acquisito. L’assassino lo rivendica con le mani ancora grondanti di sangue sapendo di trovare pronta risonanza nei media e connivenza nella società, spesso anche nelle aule di giustizia, autorevoli luoghi di tutela e conservazione del potere patriarcale. Gelosia che molto più realisticamente dovrebbe definirsi “vendetta patriarcale”per ristabilire un anacronistico status quo. In questi tempi tragici di Coronavirus tutti noi invochiamo il sollecito ritorno alla normalità, rifiutando di prendere atto che è proprio quella “normalità” a favorire il virus che ci assedia. Allo stesso modo, non è nell’ostinata salvaguardia o, peggio ancora, nella restaurazione in una prospettiva regressiva e autoritaria di un preteso ordine naturale nel rapporto tra i generi, che potremo liberarci dalla piaga della violenza maschile sulle donne, ma smantellando, con le armi della cultura, le irrealistiche gabbie identitarie, che la modernizzazione della società ha irrimediabilmente compromesso.

Giovanna Ferrari Coordinamento UDI – Unione Donne in Italia Modena
UDI – Unione Donne in Italia – Modena Aps
Strada Vaciglio Nord, 6 – 41125 Modena
Tel. 059.2153122
E-mail: udimodena70@gmail.com

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