Palestina - Associazioni e scuole miste israelo-palestinesi sono l'esempio di un dialogo possibile ai loro riottosi governanti
Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2007
C’è una barzelletta che in terra di Palestina tutti conoscono, sia ebrei che arabi. Ce l’ha raccontata Shafiq Masalha all’inizio del suo intervento all’incontro tenutosi a Roma il 20 febbraio 2007 dal titolo “Semi di pace. Israeliani e palestinesi insieme in Italia per un dialogo dal basso”. Shafiq Masalha è uno psicoterapeuta, esperto in traumi di guerra su minori, e da anni lavora sui traumi causati dalla guerra israelo-palestinese aiutando entrambe le parti vittime del conflitto.
La storiella spiritosa è questa: l’arcangelo Gabriele va da un uomo che abita a Gerusalemme e lo invita ad esprimere un desiderio. L’uomo gli risponde chiedendogli di risolvere il conflitto arabo-israeliano. Ma l’arcangelo: “Oh no, questo è davvero troppo difficile, per favore chiedimi qualcos’altro”. L’uomo ci pensa un po’ e poi dice: “allora voglio che tu faccia diventare mia moglie obbediente”. E Gabriele: “dammi una cartina del Medio Oriente vediamo quello che riesco a fare…”.
Al di là del solito misoginismo e linguaggio sessista, del resto riscontrabile in moltissime facezie popolari raccontate nel pianeta terra, questa barzelletta manda più messaggi e a vari livelli. Innanzitutto sta comunicando a chi vive in Palestina che, nonostante il conflitto che stanno vivendo sia un problema molto grosso e quasi irrisolvibile, esistono problemi più grossi, che possono toccare chiunque. A parte lo scopo consolatorio, una tale “verità” aiuta ad uscire dalla gabbia della propria tragedia, del proprio confine di guerra. Ma la barzelletta accostando una contesa tra popoli al conflitto privatissimo tra moglie e marito, considerando quest’ultimo il più complesso tra i due, ha anche la funzione di svelare altre “verità” normalmente celate. Ci dice che nella relazione privata tra uomo e donna esistono dei conflitti talmente abnormi che persino l’arcangelo Gabriele si rifiuta di provare a gestirli o mediarli, e anche svela che se non si riesce a risolvere i conflitti relazionali intimi, si possono studiare mappe “del Medio Oriente” per provare a risolvere conflitti tra popoli o tra Stati.
Ma soprattutto: c’è uno strettissimo legame tra guerre “pubbliche” e contese private. C’è una strettissima connessione tra la modalità usata da ciascuno di noi per gestire i nostri conflitti privati e la possibilità di trovare modalità alternative alla guerra. Per lo più i conflitti, sia privati che pubblici, non sono ‘gestiti’, bensì assecondati, tollerati o subiti: si innalzano muri (o mariti e mogli, ex o meno, che non dialogano più) squarciando in due il comune territorio da curare; si tende a negare il conflitto dando più ragione-valore a una delle due parti, negando la ragione-dolore dell’altra.
L’alternativa a questo tipo di non-gestione ci sarebbe: vivere diversamente (separatamente se necessario) ma in pace, rispettando l’uno la vita dell’altro pur popolando, e curando, lo stesso “territorio” sia esso materiale o affettivo.
A questo proposito è interessante rilevare che uno scrittore israeliano della statura di Amos Oz ha recentemente chiesto a noi europei di astenerci dal parteggiare e di iniziare a prendere una chiara posizione a favore di un concreto processo di pace che gli abitanti di quella terra, ebrei-musulmani-arabi-cristiani-atei, anelano più di ogni altra cosa.
Un esempio di concreto processo di pace esiste già. Anche se può sembrare incredibile a noi ubriacati dalle notizie solo negative tra giornalieri attacchi dell’esercito e attentati kamikaze e trattative fallite. Esiste nel quotidiano di piccole azioni di pace sperimentate da uomini e donne: ci sono arabi ed ebrei che insieme curano il loro comune territorio, formando scuole bilingui e biculturali (come la scuola Galil a Gerusalemme), cercando nuovi sistemi educativi e libri di testo che accolgano le esigenze dell’una e dell’altra cultura, e che comprendano le tre religioni presenti nel territorio. E quando sembra proprio impossibile trovare punti di accordo (ad esempio sulla interpretazione della loro storia dal quarantacinque ad oggi), c’è sempre la possibilità di accostare le due versioni. Come succede nei libri di testo delle scuole biculturali di cui lo storico Asher Salah, ci ha raccontato i retroscena: l’idea era scrivere un libro “comune” della storia della costituzione dello stato ebraico e del conflitto israeliano-paestinese, ma poiché non si è trovato accordo su una storia condivisa si è deciso, in accordo, di stampare un libro a due colonne con uno spazio bianco in mezzo. La scelta della “versione” non è stata facile, dato che i palestinesi, fino al 2001, hanno studiato su testi giordani e dato che non esiste un programma scolastico unico in Israele, costellato da scuole private di impostazione molto diversa tra loro. Così per la storia israeliana si è scelta la versione delle scuole pubbliche (la più moderata) e per la parte palestinese quella studiata nelle scuole di recente istituzione.
Ecco cosa, e nella concreta realtà, sembra essersi inventato l’arcangelo Gabriele dopo avere invano studiato la mappa del Medio Oriente: costituire sempre più gruppi di persone che, a partire dal basso, facciano esperienze comuni per gestire problemi concreti della società civile. E questo sia nell’ambito dell’educazione che in quello dell’assistenza, della sanità, del trauma di guerra, del lutto.
Amos Oz ha recentemente paragonato i politici ai dottori e la popolazione ai pazienti, ma mentre questi ultimi sono pronti all’intervento di cura, il dottore non ne è convinto. A me è sembrato - mentre ascoltavo i racconti degli invitati alla Facoltà Valdese di Teologia all’incontro del 20 febbraio organizzato del mensile interreligioso “Confronti” - che il paziente non solo sia pronto, ma si stia cercando da solo la cura: altrove dalla “politica seconda” nello spazio della relazione interpersonale della “politica prima”.
La percentuale presente - tre israeliani e tre palestinesi, di cui uno soltanto dei territori - dimostra che i “pacifisti” arabi sono per lo più di arabi israeliani che non palestinesi abitanti in Cisgiordania o Gaza, ma si tratta dell’inizio di un processo di pace, e ci dobbiamo accontentare.
Proviamo a vedere qualcun altro di loro più da vicino.
Sono un uomo e una donna, lui palestinese di Nablus lei israeliana: Ibrahim Halil e Tsurit Sarig non avrebbero nient’altro in comune se non la tragedia di un figlio morto e la scelta forte di aderire al “Israeli Palestinian Parents Circle”, recentemente allargatosi in “Families Forum”. Si tratta di un’associazione attiva dal 1994 formata da genitori (allargata a tutti i parenti) di vittime della guerra. Ibrahim e Tzurit raccontando del loro terribile lutto tra rabbia, risentimento, dolore, hanno sottolineato la loro scoperta e determinazione a portare avanti il loro lavoro di pace all’interno del “Parent’s Circle”.
“Il confronto tra vittime delle due fazioni – ci dicono - genera empatia per tutte le famiglie mutilate, mettendole in contatto reciproco con la loro perdita ed instaurando un processo di riconciliazione”.
Inoltre Tsurit Sarig, madre di un militare ucciso durante la leva obbligatoria il 27 settembre 1996, ha parlato al registratore di “noidonne”:
“Quando mio figlio è stato ucciso tutta la nostra famiglia ha subito un grande shock, la prima reazione è stata di grande sconcerto e rabbia, ma poiché noi siamo persone di pace abbiamo cercato modalità alternative per investire l’energia del lutto e l’abbiamo trovata nell’attivarci nel Parent’s Circle che attraverso la condivisione del dolore e delle storie personali inspira a tutti uno spirito di comprensione e riconciliazione invece che di odio e vendetta.”
Quali sono le attività della vostra associazione?
Oltre ad incontrarci per condividere il nostro lutto, lavoriamo in due direzioni: spingere il nostro governo al dialogo; andare da più gente possibile per aiutarli a intraprendere il lungo cammino di superare rabbia e paura ed essere pronti a vivere in pace. Per questo organizziamo dei gruppi misti (in genere due persone) che vanno a parlare con più gente possibile nella loro vita quotidiana. Andiamo nelle scuole, nelle università, o laddove riusciamo ad organizzare incontri pubblici, e raccontando ai giovani il nostro dolore cerchiamo di persuaderli a smetterla di stare da una sola delle due parti ed a comprendere il valore della riconciliazione, per essere capaci sempre più persone e insieme – arabi e palestinesi - di chiedere ai governanti di stabilire la pace.
Qual è stata la cosa più difficile nell’incontrare le madri della parte avversa?
Innanzitutto la lingua, a volte c’è come un rifiuto a trovare una lingua comune. Siamo riuscite a parlarci, sì con l’aiuto di una traduttrice, ma soprattutto guardandoci l’un l’altra, toccando l’una il cuore dell’altra, e facendo cose insieme. Anche probabilmente abbiamo un modo diverso di vivere il proprio lutto, ma cosa cerchiamo di fare nel nostro lavoro è di pensare non con la pancia ma con la mente guardando al futuro di pace del nostro comune paese.
Qual è la tua speranza nello svolgere questo lavoro?
La mia speranza è che le cose del mondo e la politica cambino ascoltando le ragioni di chi parla loro dal basso. Spero che la nostra associazione insieme alle molte altre che, in maniera diversa, sono impegnate per la pace nella nostra regione, riescano a convincere i governanti a sedersi e parlare fino a che non si trova un accordo.
Ecco cosa potrebbe dire ai governanti l’arcangelo Gabriele, al di fuori della facezia: provate a parlarvi reciprocamente in maniera autentica, mettendo sul piatto risentimenti, rabbia, bisogni, paure, dolore, toccandovi l’un l’altro, così come stano imparando a fare i vostri “pazienti” abitanti in Palestina.
(17 aprile 2007)
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