L’ ombra scura delle pari opportunità incombe sull’ ex governo rosa
Se neppure con il rimpasto avvenuto all'interno dell' esecutivo si è provveduto alla nomina della ministra alle Pari Opportunità, chi dovrebbe tutelare gli interessi specifici delle donne italiane in seno alla compagine governativa?
E’ stato formalizzato da diversi giorni il rimpasto governativo, connotato da nuovi ingressi nell’esecutivo, da turn-over negli specifici incarichi e da ritorni particolari nei ruoli delegati. Eppure continua a non essere nominata la titolare del dicastero delle Pari Opportunità. Un’assenza piuttosto rilevante, soprattutto perché ad oggi il governo Renzi ha perso la presenza paritaria al suo interno. Delle otto ministre, designate all’inizio del suo percorso istituzionale, ne sono rimaste solo sei, per non scrivere della compagine di sottogoverno completamente sbilanciata a favore della sua componente maschile. Il ministero delle Pari Opportunità, istituito nel 1996, nel corso degli anni è stato ricoperto da varie titolari, fintantochè la correlata delega nel 2013 fu attribuita dall’allora premier Letta alla viceministra al Lavoro Guerra. Il primo ministro attuale ha glissato su tale nomina sin dall’inizio dell’incarico, riservandosene le competenze e facendosi assistere da una figura fino ad ottobre 2014 assente, ossia la consigliera in tali materie designata nella persona della on. Martelli. Le sue dimissioni, avvenute lo scorso mese di novembre, avrebbero potuto costituire un giusto motivo per formalizzare la nomina della ministra, soprattutto alla luce delle dichiarazioni della stessa consigliera Martelli che ha denunciato in un’intervista “la troppa disattenzione ai temi delle donne”. Purtroppo gli auspici sono andati miseramente a naufragare nel mare delle logiche partitiche alla base del rimpasto governativo che, annunciato peraltro da mesi, poteva colmare l’ingiusto vuoto ministeriale. In conclusione si è preferito invece perseverare in questa, per così dire, dolosa omissione, facendo apparire più che evidente la precisa volontà di non designare alcuna rappresentante istituzionale alle Pari Opportunità.
I motivi di questa scelta non sono ben chiari, ma una domanda sorge spontanea: chi dovrebbe tutelare gli interessi specifici delle donne italiane in seno alla compagine governativa? Un esempio per tutti, lo scorso 15 gennaio con il nuovo decreto sulle depenalizzazioni di alcuni reati, entrato in vigore proprio oggi, alla donna che si sottopone ad aborto clandestino viene comminata non più la sanzione pecuniaria di 51 euro, bensì una il cui ammontare va dai 5000 ai diecimila euro. Si provi ad immaginare la ministra alle Pari Opportunità che, in sede di discussione al tavolo dell’esecutivo con il ministro di Giustizia, si oppone ad un aumento così rilevante della pena pur in presenza di uno Stato acconsenziente alle altissime percentuali di medici obiettori di coscienza. Certo, potremmo solo ipotizzare cosa possa accadere in simile circostanza, ma allora che immaginazione sia! La titolare del dicastero alle Pari Opportunità inizia a confutare la decisione del ministro di Giustizia, il quale a sua volta elenca i dati estrapolati dagli atti della commissione di esperti preposta allo studio dei reati da depenalizzare. La ministra allora, alzando la voce, va a spiegare ai colleghi come l’aumento della sanzione alla donna che ricorre all’aborto clandestino penalizzi fortemente chi è già vessata dalla scelta di non proseguire la gravidanza. Succede così che le sue tesi convincano quante/i sono seduti al tavolo del Consiglio dei ministri, al punto di votare per il ritiro di tale specifica depenalizzazione. Ecco, questa è immaginazione, ben altra è stata la realtà perché non risulta che i/le ministri/e si siano opposti a quel provvedimento.
Una nota giornalista, in conseguenza delle violenze avvenute la notte di capodanno a Colonia per opera di extracomunitari, invitò “le madamine” parlamentari a fare sentire la loro voce al riguardo. La ragione di questo appello era insita nella necessità che le donne impegnate nelle massime istituzioni condannassero tali violenze senza timore di apparire razziste. Pare che sull’aumento delle sanzioni pecuniarie per chi si sottopone ad aborto clandestino alcuna giornalista abbia raccolto le testimonianze delle parlamentari. Eppure la parola d’ordine, mutuata dalle donne tedesche in protesta davanti al duomo di Colonia “No razzismo, no sessismo”, facilmente avrebbe potuto essere modificata nello slogan “No al sessismo di Stato”. Sembra, difatti, così connotata la condotta di un ente statale, o chi per esso, che in virtù dei poteri attribuitigli faccia cassa sui bisogni e sui drammi in cui può incorrere una donna che, non volendo proseguire una gravidanza, si trovi ad esempio a Iesi. Una volta constatato che all’interno del suo ospedale di riferimento l’obiezione di coscienza è pari al 100% del personale sanitario, perché punirla con una sanzione economica così elevata dopo che è già condannata all’aborto clandestino? C’è da sperare in uno scatto di orgoglio di genere nelle c.d. madamine parlamentari, non fosse altro che perché le norme per la democrazia paritaria, che le hanno consentito di sedersi sugli scranni di Montecitorio, di Palazzo Madama e Palazzo Chigi, sono state promulgate in nome di tutte le donne italiane. Allo scopo precipuo che alla maggiore presenza femminile tra le deputazioni parlamentari e governative corrisponda la capacità di approntare le giuste misure a sostegno dei bisogni, dei diritti e delle speranze di tutte, nessuna esclusa.
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