Lunedi, 12/12/2011 - Giovedì 1 dicembre 2011, presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Roma Tre, si è tenuto il convegno “La nuova legge sulle detenute madri: riflessioni critiche e proposte” promossa dalle associazioni Legale nel Sociale e A Roma insieme e con il patrocinio del Ministero della Giustizia, la Regione Lazio, Roma Capitale e Provincia di Roma. Giuristi e operatori del settore si sono riuniti per discutere delle innovazioni e delle problematiche aggiuntive apportate dalle integrazioni della legge del 26 luglio 1975, n.354, in tema di tutela del rapporto tra madri detenute e figli minori, con la legge del 21 aprile 2011, n.62. L’esigenza di una modifica della legge nasce dalla consapevolezza che la presenza delle donne nelle carceri in Italia ha contribuito alla creazione di un fenomeno il cui impatto sociale non è stato ancora adeguatamente considerato, per quanto in Italia regolamentato, ed è quello dei bambini reclusi nelle carceri con le loro madri. La parola d’ordine è stata “i bambini non devono crescere in carcere”, monito d’apertura, e punto imprescindibile di ogni intervento a seguire, di Leda Colombini, agguerrita e delicata testimone del lavoro fatto per la riconquista dei diritti dei bambini nati e cresciuti in carcere. Ma, affinchè questo possa diventare possibile, è necessario ripensare il sistema delle sanzioni in Italia che vede il solo carcere come possibile luogo di sconto della pena. Le modifiche apportate dalla nuova legge si riferiscono soprattutto all’ampliamento del divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere fino ai 6 anni del bambino (dai tre della precedente legge); alle visite e all’assistenza al minore infermo; alla regolamentazione circa nuovi istituti di accoglienza delle madri detenute e dei figli minori quali le “case famiglia protette” e gli “istituti a custodia attenuata per detenute madri” (ICAM) e, qualora non vi fossero misure restrittive riguardo alla possibilità della madre detenuta di lasciare il carcere, anche gli arresti domiciliari presso la propria abitazione. Innanzitutto, in caso di morte o di impossibilità della madre detenuta all’assistenza del figlio minore, la tutela del “rapporto con i figli” viene estesa alla figura del padre, riconoscendo il fondamentale ruolo dell’assistenza genitoriale nella vita del bambino con genitore detenuto. Da quanto emerso dalla discussione, questa nuova legge ha il merito di snellire la burocrazia relativa alla concessione di permessi alle madri detenute per raggiungere i figli in caso di ricovero per gravi motivi, ma relega ancora la funzione materna a quella di visita e non di assistenza, limitandone l’intervento nel caso si tratti di motivi non gravi nella compromissione della salute fisica del bambino, ma che potrebbero essere motivo di disturbo psicologico per lo stesso. L’ampliamento dell’età della custodia del bambino a sei anni sembra acuire il problema piuttosto che avvicinarlo alla sua soluzione: laddove la norma prevede la tutela del bambino fino ad un’età più avanzata, non tiene conto però del fatto che il bambino trascorrerà altri tre anni in un contesto che non è quello naturale ed indicato per la sua crescita. I bambini non escono dalle carceri ma ci rimangono più a lungo! Possono contare sull’assistenza materna ma vedono del tutto inibiti i propri impulsi sociali. Secondo il dott. Gianni Biondi la reclusione del bambino comporta una serie di reazioni psicologiche che possono andare dall’aggressività ai disturbi alimentari. Spesso tali disturbi partono da una inibizione nelle madri che nasce dal bisogno di mantenere un rapporto distaccato con il bambino per paura di non saper affrontare il dolore del forzato distacco che ne consegue. Dubbia è anche la concretizzazione di altre forme di detenzione. Ad oggi in Italia esiste un solo ICAM per le madri detenute, a Milano, il cui esempio, per quanto positivo, rischia di diventare un caso isolato e vicino alla scomparsa dato che l’immobile, di proprietà del comune di Milano, sta per essere requisito dal comune stesso per essere destinato ad altri fini. Spesso, Rebibbia ne è un esempio, gli stessi istituti carcerari sono stati capaci di creare luoghi di accoglienza e assistenza così efficaci da essere una valida risposta agli ICAM; il problema di fondo però rimane, i bambini continuano a restare nelle carceri. Nella maggior parte dei casi le madri detenute sono straniere che spesso trovano in carcere quell’assistenza e quel calore umano che gli è negato nei loro contesti abitativi; spesso, in questi casi, il problema sembra essere più grande fuori dalle carceri piuttosto che dentro, facendo emergere un grande disagio sociale che riguarda l’incapacità dello stato italiano di recuperare e assicurare assistenza a chi ha scontato la pena, tale da evitare che le detenute, o i figli di detenute, possano trovarsi nella condizione di commettere ulteriori reati. Presente alla discussione era anche la sen. Anna Finocchiaro che ha parlato dell’esigenza di guardare con occhio nuovo al problema, sottolineando che non si tratta di una “questione di donne” da affrontare con spirito compassionevole, ma di una delicata questione sociale che ha le sue fondamenta nell’applicazione dei diritti riconosciuti ai cittadini, senza distinzioni (bambini di serie A, coloro i quali possono ambire ad un percorso di crescita equilibrato e assistito, e bambini di serie B, il cui destino di crescita li vede privati del sostegno e dell’amore materno oppure, in alternativa, della libertà di crescere nel proprio contesto abitativo).
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