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La musa liberata

La musa liberata

Intervista a Roberto Bertoldo - La poetessa si apre al nuovo secolo con voce nuova, consapevole, libera da dipendenze maschili

Benassi Luca Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2006

Come anticipato nel numero di dicembre 2005, Noidonne apre le sue pagine al dibattito sulla poesia scritta da donne, coinvolgendo poeti, direttrici e direttori di riviste, critici, lettrici e lettori. Sono state poste alcune domande al critico e poeta Roberto Bertoldo sviluppando la riflessione da una parte sul valore concettuale di una definizione di poesia femminile e dall’altra, più pragmaticamente, sul ruolo che le voci femminili hanno avuto nel panorama poetico italiano ed europeo nel secolo appena trascorso.
Roberto Bertoldo ha scritto vari libri di poesia, narrativa e saggistica; tra le sue pubblicazioni i romanzi Il Lucifero di Wittenberg e Anschluss (Asefi Terziaria, Milano 1998), Anche gli ebrei sono cattivi (Marsilio, Venezia 2002); i saggi Nullismo e letteratura (Interlinea, Novara 1998), Principi di fenomenognomica con applicazione alla letteratura (Guerini & Associati, Milano 2003); il libro di poesie Il calvario delle gru (La Vita Felice, Milano 2000). Dirige la rivista Hebenon.

Secondo lei esiste la categoria letteraria di poesia femminile? E se si, quali sono le caratteristiche che la contraddistinguono? C’è una peculiarità di temi affrontati?
No, secondo me non può esserci la poesia femminile, anche perché è impossibile riconoscere quanto di maschile e femminile ci sia nel cervello e nell’emozione di un essere umano. C’è invece una poesia delle donne, che si distingue dunque da quella degli uomini non per motivi naturali ma culturali, storici, ossia per la condizione di assoggettamento che le donne (e la femminilità, sia nelle donne sia negli uomini) hanno dovuto subire per secoli. Per esempio lo spirito di rivalsa sessuale può intaccare il testo poetico, trasformandolo in lamento sotteso, in una espressione egotistica e priva di universalità, può in altre parole corrodere l’aspetto induttivo dell’emozione a vantaggio di una poesia che, volendosi imporre, invece di rappresentare l’assurdo e l’ingiustizia cede a scorciatoie barocche; che sono sí meglio del manierismo avanguardistico di certi poeti arrampanti privi di etica e umanità, ma restano sfogo e belletto.

Qual è lo stato di salute della poesia scritta da donne, soprattutto facendo riferimento alle ultime generazioni? Riscontra una discriminazione rispetto ai colleghi uomini in termini di minori opportunità editoriali e scarsa considerazione critica?
Discriminazioni sessuali in editoria non ne vedo, vedo bassezze, arrivismi, disvalori, non discriminazioni. Circa la considerazione critica, è facile notare che essa è appannaggio dei poeti che hanno potere editoriale e dei loro portaborse: è stato così per Raboni, lo è per Cucchi, Riccardi, ecc. Quindi il fatto che le donne siano un po’ trascurate – ma è poi vero? Non vi sembra che si siano suonate un po’ troppe trombe per poetesse come Lamarque o Valduga? – è dovuto solo al minore potere che hanno.
La poesia delle donne, ora che ha smarrito i suoi archetipi un po’ fastidiosi, ossia la poesia della donna frustrata, dimessa, depressa, deve liberarsi tanto dai contenutismi quanto dai formalismi, tanto dall’insofferenza successiva all’emancipazione quanto dai modelli manieristici. Forse ci vorrebbe una poetessa a metà tra Sylvia Plath e Anne Sexton che sappia superare la presunta vergogna di essere poeticamente libera e di non essere riconoscibile.

Se dovesse proporre un canone al femminile del Novecento che nomi farebbe?
Nel Novecento ci sono state alcune donne, tra quelle oggi note, che mi sembrano meritevoli di assurgere a modello umano-letterario: la più rappresentativa è Anna Achmatova, esempio principe di dipendenza dall’uomo, come Gabriela Mistral, e dalla sua predisposizione allocentrica. La donna ha sviluppato una maggiore empatia cognitiva a causa della sua storia di schiava spirituale, ma lo spirito di rivalsa le ha soffocato l’empatia affettiva. E senza empatia affettiva la poesia resta chiusa nel suo bozzolo autobiografico. Anna Achmatova riesce a volte, e in questo è un esempio di riqualificazione mentale, a sfoderare la sua empatia affettiva, però è ancora a immagine e somiglianza dell’uomo, fatto che non ritengo negativo di per sé, ma solo perché prima è necessaria l’emancipazione. Marina Cvetaeva questa emancipazione l’ha portata avanti, anche se è a Sylvia Plath e ad Anne Sexton che dobbiamo la completa liberazione rispettivamente dai cliché letterari e dall’uomo, senza dimenticare, più tardi, Hilda Hilst che, attraversato lo scandalo, ha lasciato uno dei segni forse ineludibili nella svolta della poesia, al punto che giovani poetesse la seguono, magari senza saperlo o dirlo (in Italia Elena Varvello, Tiziana Cera Rosco, Ljuba Merlina Bortolani).
Oggi, in ogni caso, spesso le donne sono ancora succubi della storia maschile, succubi dell’uomo, anche nel loro disprezzo per lui. Non hanno sguardo interno, nel luogo dove la disperazione rappresenta il dramma del mondo esterno. Penso ad Antonia Pozzi che la disperazione l’aveva dentro, anche se purtroppo in forme preesistenti. Il compito delle donne, che da noi oggi non hanno più necessità di distinguersi dall’uomo, è quello di ritrovarsi come persone, senza cadere nell’imitazione né nel rifiuto forzato che è un’altra forma, barocca, di imitazione. Devono essere se stesse e trovare la scrittura che rappresenti la loro percezione emotiva e intellettuale del mondo.
Per chiarire, faccio riferimento in Italia ad Alda Merini, poetessa che però oggi la critica tende a riposizionare in basso. Il suo dramma mantiene la singolarità nell’universalità, le sue ferite sono, forse involontariamente, tanto reali quanto ideali. Ma se queste ferite divengono belletto, per esempio in Tema dell’addio di Milo De Angelis e in molti testi della stessa Merini, allora la grandezza poetica, che riconosco in molta produzione ad entrambi, scade in bisogni volgari. Ci vuole etica letteraria per scrivere e le donne devono dimostrare prima di tutto di possederla. Senza di questa non ci può essere vera poesia, la quale non ha sesso o meglio è un intreccio di maschilità e femminilità.
(10 marzo 2006)

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