Cultura/ Poesia. Maria Pia Quintavallla - Nella poesia di Maria Pia Quintavalla c’è un ritmo che s'impone con violenza, come primordiale musica che tuttavia include tutti gli stridori dell'oggi
Benassi Luca Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2005
Maria Pia Quintavalla è nata a Parma nel 1952 e vive a Milano. Il suo primo libro, Cantare semplice, esce nel 1984 per le edizioni Tam Tam Geiger (nel 1991 ristampato integralmente per l'editore Campanotto). Nel 1985 inizia a curare la rassegna biennale nazionale Donne in poesia, da cui è nata l'omonima antologia. In quegli anni ha ideato anche il convegno nazionale: Bambini in rima/la poesia nella scuola dell'obbligo (Comune di Milano, 1985 - Atti su Alfabeta, 1986) frutto di un'altra passione: la pedagogia della poesia.
In versi ha inoltre pubblicato: Lettere giovani (Campanotto, 1990), Il Cantare (Campanotto, 1991), Le Moradas (Empiria, 1996), Estranea (canzone) (Piero Manni 2000). Nel 2002 ha pubblicato la raccolta di fiabe, prose e poesie brevi Corpus solum per le edizioni Archivi del 900. Si tratta di uno degli esiti più felici della nostra poetessa. Osserva infatti il prefatore Giampiero Neri come la “avventurosa 'biografia immaginaria' che accompagna prose e poesie e che informa della sua vena favolistica l'intera opera". si esplica in "un tono accattivante, un linguaggio duttile e ben modellato" che mostra il risultato di una lavoro poetico condotto con pazienza e dedizione negli anni.
Maria Pia Quintavalla cura inoltre seminari di lettura del testo poetico presso diverse istituzioni. (Le più recenti: "Stoicheia", Comune di Milano, "P.P.Pasolini", "Premio Marina Incerti", Milano; nelle scuole secondarie di Parma: "Poesia del novecento/Incontri con gli autori"). Collabora presso l'Università Statale di Milano con i corsi di lingua italiana nella comunicazione scritta e presso l'Università delle Donne dove ha ripreso lo studio di autrici del novecento europeo e italiano ed il ciclo:"Il presente/passato della poesia."con laboratori, interviste, dibattiti. Suoi testi sono stati tradotti in tedesco, spagnolo e inglese e compaiono, insieme ad articoli, recensioni e saggi, sulle principale riviste letterarie italiane: "Alfabeta", "Lettera Internazionale", "Nuovi Argomenti", "Il Verri", "Poesia", "Gradiva", "Journal of Italian Literature", "Pagine" ed altre.
La poesia di Maria Pia Quintavalla si muove su una linea capace di coniugare le istanze del quotidiano, proprie di certe propaggini della linea lombarda, con una dimensione onirica, quasi fiabesca. Tali direttrici, che danno i risultati migliori in forme vicine al racconto e alla narrazione, sia in poesia che nella prosa poetica, si muovono attraversando un linguaggio teso fino allo sperimentalismo che ricorda certa poesia di Antonio Porta del quale la Quintavalla è stata legata da profonda amicizia. Ne deriva un miscuglio esplosivo dalle forti potenzialità evocative, vere fiammate poetiche in una lingua cadenzata attraverso un ritmo sincopato e altilenante.
Scrive Andrea Zanzotto: "La scrittura fluisce [...] grazie alla forza di un ritmo che s'impone con la violenza di un essere vitale, come primordiale "musica" che tuttavia include tutti gli stridori dell'oggi. […] Si è pur sempre di fronte a una grande energia [...] a un fiume lavico imploso, in cui galleggiano come detriti i fatti della vita, della politica, della famiglia, del femminile, della ricerca letteraria, a blocchi o a zolle, che si rimescolano”.
Da Canzoni estreme
VI Meno stanco meno alieno,
meno padre fu visto infine, o padre
anziano. Che per vie e per
traverse minuziose case ritrovata
una vita, una stesura piena
di molte nuove (voci)
o come scrisse l'attilio, omologate
non, invendute.
Ora è già giorno si è fatta
conclusione, cosa è scritto qui
al fondo della notte non
è dato (sapere) né possiamo.
Semplice suono, semplicemente –
voci che rincorrono (un futuropassato)
nelle strade genealogie raccolte
in sé strette,
perché polle pozzi
giorni sepolti tra la vita, altrui
canzone, e l'oggi mobile
miraggio appeso esile, saputo
e presto
nella piena e verde
e piazza (annuvolato).
In sé già bozzolo affannato
ma rimasto a meprisare intento, libero
(o azzerato) non è dato sapere intorno
così che intanto giovani e celate
storie infondevano mesi
antichi e astanti e scolpivano
povere le mani, le stagioni.
le file degli amici che composero
si fusero un bel giorno minime
stanze attesero, morirono
(zittirono),
non presero quel suono quell'odore
come la porta di ogni porta,
(o forte intesa) intesero
già altre più sbiadite,
e appresero
le altre, voci antiche monche (o amiche
mal finite) ora che
morte le separi, furono mangiatoia
svolta, affare,
allocuzione.
Nera cronaca ancora, eterna mite
vendemmiata, limpida. E vogliosa
essa di lei; le stesse
variegate in più cantarono
tornarono, assetate e storie
di crude gesta, sensazione
di olfatto stanco, tiepido e
caduco.
Le donne i cavalieri le armi
gli odori; antiche storie mai
raggiunte
non furono le sole, né
la fonte ma tradirono, accorate
intanto che si stesero, canzoni.
Da Lettere Giovani
DICHIARAZIONE DI POETICA Non di corpo bramava la sua lingua
godiva, amorosa svernare il lutto e gli ori
senza inverare le parole belle e
sole, nuovi moti celesti
i morti - sua remota sorellanza
silente sorellanza spinosa, seminare
apneica lingua, duri spazi-sogni
come lupa allappare
senza più sognare - agguerrita presenza
le smaniate cose.
Poesie
pubblicate su «La Mosca di Milano», N° 12, aprile 2005
NAPOLETANA, I Tutti gli amori ti furono infelici perché ci credevi,
tutta vi aderivi alle promesse
dell’essere – al suo centro, ti innamoravi della vita
del paradiso dalle palme lente e dolci
dell’amore improvviso nelle dita,
degli amanti napoletani della forza che
ti travolgeva ma di messi astrali, bianche
di una stella carnale
antiche passeggiate e dolci mani
della vita sentivi lì la forza intatta infrangersi
stupita appartenente a corse, statue di gaggie
erano tonfi al cuore, desiderio e copule del mare.
Forti le braccia i baci le lusinghe,
per amore della vita che perdevi
e lenta nell’amore ti perdeva.
NAPOLETANA, II Rivorrei la mia infanzia una triste
prigione del cuore – dissi
a lei che più non capiva da dove
tutto questo avesse inizio, così
mi mandò a dire, Vattene un po’
all’inferno vattene, sì vai via,
la tua finestra più non ci appartiene
né mai lo fece, Esci di scena.
Stanca sconsolata lei assentì, ma l’altra
da lì stette fuori tappata,
bocche e orecchie spaventata la guardava,
né poteva più rispondere.
Rivorrei la mia infanzia con le finestrelle
chiuse ottuse, lì nascosta poco di sotto
al cuore, ritornava ritornello infelice
per donarsi – al suo portone.
IL PADRE Quell’altra bocca quella
intessuta al viso e quell’acre
odore stupito che sorride,
come una mezzaluna guarda affaccia
dove ti specchi acqua chiara
nube anche tu,
quel viso sempre amato
capitato a te accanto,
icona più addensata e pura,
forse lo amavi perché ti indicava
quel gesto fiducioso della mano?
Esso lo specchio di quest’altro.
LE NUBI Tu le ami – mi dici – gli somigli
ed io convinta a te contemplo
il piacere a me non ricambiato dell’apparire e
dello scomparire andando,
migrando in suoni di campane.
Morire, e poi sorridere
fiorire. svenire farsi udire
densa materia e semi
continente che alle spalle solidifica
in segreto ma campale astrale,
mai vicino e intoccabile
bambino corpo
bianco spugnoso a capofitto,
prima che il sole lo trafigga.
Andate, andate
altrove – nubi sfiatate
da menzogna in spirito divino
nubi bambine come stelle non
atte a prendere dimora sulla terra,
terra beata e grassa
abituata a sostare, o peggio
essere fondamenta incosciente
delle più sementi
o voi beate,
incaricate di giornate e sogni
galoppati e vuoti di
dimore d’aria palafitte, e pregne
di un’equanime sostanza
ai più – in sostare.
Insetti ronzano,
cicale e mosche su quel prato
ma le nubi incostanti e dense,
dolci al suo sentire contraddicono
chiare e opache
il suo destino.
Piccole a fiocchi senza
più sentieri, invase
e noi vedenti sotto
il bel confine
che da cielo a terra tracciano,
confini incerti
luminosi della mano
che non vola basso ma
dal basso per vedute vie,
che qui circonfuse esse
vagheggiano più chiaramente e
nudo il p a r a d i s o, il suo
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