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La morte di Viktoria, giornalista, al lavoro. In guerra...

La morte di Viktoria, giornalista, al lavoro. In guerra...

Restituito dai russi il corpo massacrato di Viktoria Roshchyn, la giornalista ucraina, dopo due anni di prigione. Insieme a Luana, giovane operaia stritolata dal macchinario senza protezione, vittime del potere senza umanità

Martedi, 06/05/2025 - Il femminile di giornata. cinquantasette / La morte di Viktoria, giornalista, al lavoro. In guerra ...
E’ la fine di aprile quando i giornali raccontano che in Ucraina è "tornata” a casa, insieme ad altri 757 cadaveri, la giornalista Viktoria Roshchyn. Il suo corpo martoriato e vivisezionato era dentro un sacco, per impedire probabilmente di identificare le cause della sua morte violenta. Questo dopo quasi due anni di ricerche, richieste di notizie alla Russia, fino a quella, notificata a suo padre, nell’ottobre 2024 della morte, e poi niente più.
Viktoria, 27 anni, voleva fare la giornalista ”scoprendo” e raccontando la verità dei fatti, lavorando sul campo di battaglia. Un obiettivo sempre difficile e rischioso avendo deciso di addentrarsi in territorio ucraino occupato dai russi, che non minimizzavano ciò che avrebbero fatto ai giornalisti, assai sgraditi. Determinata ad arrivare alle orribili prigioni dove si sapeva languissero migliaia di arrestati ucraini di cui si chiedeva il ritorno attivando lo scambio dei prigionieri, non aveva voluto ascoltare nessun suggerimento di ripensarci, aveva seguito la sua convinzione di dover svolgere il lavoro di fare informazione in diretta sul campo, consapevole dell’enorme rischio, insito, nel suo stesso mestiere.
Un progetto che l’aveva portata nel 2022 a partire per un lunghissimo percorso, per arrivare ai territori ucraini occupati dai russi, per raggiungere, secondo il suo progetto, fino alle famose prigioni dell’orrore, in cui lei stessa, insieme a centinaia di ucraini è poi finita, dopo essere stata arrestata a Energodar vicino alla centrale nucleare di Zaporizhzia, da lì a Melitopol e poi buttata nel famigerato penitenziario di Taganrog.
A distanza di quasi due anni dall’inizio del suo viaggio, dopo mesi di mancate risposte alle ricerche del padre e dei colleghi, e dopo un anno dalla notifica della morte, a dare la conferma è stato il suo corpo martirizzato, consegnato in un sacco dell’orrore e del dolore. Uno strazio, quello consumatosi per Viktoria nelle prigioni russe, di cui alcune donne rientrate in patria con gli scambi di prigionieri e che hanno condiviso del tempo con lei, hanno narrato nel progressivo aumento di torture, violenza e dolore che ha sopportato, arrivando a spegnersi per consunzione. Testimonianze che, affiancate allo strazio che ha raccontato il corpo di Viktoria, non potevano che divenire una di quelle notizie da divulgare, su cui spendere riflessioni e su cui interrogarsi non dandosi pace sul tanto orrore che, come nella sua storia, incarna quella di tante e tanti. La storia di una giornalista che l’informazione non voleva e non poteva ignorare.
L'indagine non a caso è iniziata subito dopo la sua scomparsa e molti giornali stranieri hanno avviato un’inchiesta internazionale sul destino di Viktoria Roshchyn sotto l'egida di Forbidden Storie, che include: The Guardian, Le Monde, Washington Post e L’Ukrainska Pravda con cui Viktoria collaborava.
La tragica fine di questa coraggiosa giovane donna - che aveva scelto il mestiere della giornalista, ed in più in un tempo di guerra del proprio paese, l’Ucraina per cui ha lasciato la vita - come notizia è esplosa praticamente alla vigilia del primo maggio entrando così a pieno diritto e “obbligatoriamente” nel sacrario delle vittime del lavoro ricordate in quel giorno.
Il lavoro che uccide o può uccidere in Italia e nel mondo in pace e in guerra, come è stato anche per lei simbolo e memoria di tante e tanti altri giornalisti uccisi: per cancellarli e non farli raccontare. Un tema che dalle morti bianche, ai caduti sul lavoro, agli omicidi del lavoro, proprio in questo 2025, nelle piazze d’Italia ha riscosso uno spazio importante negli incontri, nei comizi, nelle parole nei temi caldi del sindacato e delle politiche rivolte al lavoro.
Un tema doloroso e difficile ma che fra i molti approfondimenti che chiama vi è quello dell’infinito ventaglio di lavori, che lo vedono problema incombente che per motivi diversi, ma con finali ugualmente drammatici, con ben differenti scelte dei rischi per i protagonisti, ma troppo spesso con interlocutori ugualmente pronti a “darsi pace” di qualunque morte, se frutto di un disturbo ai propri piani. Giornaliste scomode come Viktoria, uccisa dalla guerra, o operaie come Luana D’Orazio, stritolata da un macchinario, i cui ingranaggi di blocco per la sicurezza erano fuori funzione per rendere più veloce e produttiva la macchina.
Di Luana, narra la madre, è rimasta solo una scarpa. Di Viktoria, che voleva testimoniare da giornalista la guerra e l’orrore al di là dei diritti umani (che dovrebbero sempre e comunque essere rispettati per convenzione universale), è tornato un corpo offeso e mutilato per nascondere il calvario subito.
Due giovani così lontane eppure così vicine.
Due giovani donne che raccontano vite, scelte e destini molto differenti eppure unite da quella parola, lavoro, che le ha uccise divenendone entrambe, in questo tempo, un simbolo che costringe a riflettere e farci i conti.
Il lavoro che le ha uccise non perché fosse scritto come conseguenza prevista, obbligata, per nessuna delle due, di ciò che facevano ma entrambe vittime di uno strapotere di chi governa una fabbrica o un paese in guerra e che al proprio interesse e alle proprie ragioni piega, dandosene ragione, ogni umanità.
Paola O 6/5/ 25

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