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La moglie del pentito

La moglie del pentito

Intervista alla moglie di un collaboratore. Non è servito porre domande, è bastato lasciarla parlare

Lunedi, 08/07/2019 - Sono la moglie di un pentito. E la madre di due figli.
Mi chiedo con quale incoscienza li abbiamo messi al mondo, di tanto in tanto. Ormai sono grandicelli e sanno tutto. Sanno che papà ha sbagliato tanto, forse perché non ha avuto dei genitori che gli spiegavano che cos’è il bene. Anzi lo spronavano a essere cattivo. A ammazzare il cagnolino, per farsi la mano. E imparare a zittire la sua coscienza.
Bene, un giorno mi ha detto che non ne poteva più e aveva deciso di collaborare. Mi ha chiesto se ero d’accordo. Anch’io vivevo nello stesso ambiente, sapevo ciò che la mafia fa ai pentiti. Ciò che fa alle loro famiglie. Ai loro figli. Ma ho sentito come un peso che si toglieva, una finestra di aria pura che si apriva. Ho ringraziato la Madonna e gli ho detto “vai!”
Lo avevano citato per interrogarlo, ma da “persona informata sui fatti”, poteva dire che non ricordava, che non era lì. La famiglia lo avrebbe sostenuto e, se per caso il giudice decideva di arrestarlo, la famiglia mi avrebbe senz’altro aiutato. Io lo sapevo. Sapevo tutte queste cose, ma ho detto lo stesso “vai”.
Alla sera è tornato tardi, si vedeva che era stanco, sconvolto. Mi ha detto “ecco, a partire da oggi la nostra vita non vale più niente, lo sai vero?” Certo che lo sapevo.
Qualche giorno dopo sono arrivati con una macchina e ci hanno portati via. Prima in un albergo, poi in un altro, poi un altro ancora.
I bambini erano piccoli, sballottati di qua e di là piangevano sempre. A uno gli è venuta la febbre, ho chiesto un pediatra. “dagli un po’ di tachipirina, domani vedremo”, mi hanno risposto.
Così ho capito che non avevo diritti, ma potevo ricevere qualche favore, a seconda della gentilezza degli agenti. Anche loro avevano figli piccoli, uno mi ha perfino portato lo sciroppo. Brava gente, sovraccarica di lavoro.
I bambini sono cresciuti mentre mio marito andava in giro da un tribunale all’altro, da una procura all’altra. In genere a testimoniare, qualche volta a spiegare come funziona la mafia.
Ci cambiavano località spesso così i bambini non avevano amici. A scuola pare che fosse informato solo il dirigente, io non potevo dare documenti così un ispettore andava, spiegava e l’indomani i bambini erano in classe. Ho sempre cercato di seguirli perché cambiare spesso scuola non fa bene, ma certe cose io non le so perché nella mia scuola si faceva il francese, così l’inglese io non l’ho mai studiato. Matematica invece l’ho dimenticata. Ho provato a studiare insieme a loro, ma ho troppi pensieri e non ce la faccio.
Una volta capitammo in un appartamento che ci pioveva dentro. Comprammo due secchi per raccogliere l’acqua e avvertimmo. Alzarono le spalle “tanto non è definitivo”.
Guido senza patente, perché sono senza nome. Ho la mia, è scaduta, ma non posso rinnovarla perché non sono residente in nessun posto. Sì, a Roma, magari.
E così passano gli anni. Tutto è precario. Non so domani che cosa succederà. So solo che domani mattina quando fa ancora buio, verrà una macchina a prendere mio marito perché c’è una procura che richiede la sua presenza. Insomma, un lavoro a tempo pieno. Ed è giusto così.
Ora io chiedo, se lo giudicano utile, perché non ci danno la possibilità di vivere da persone normali? Noi che colpe abbiamo? Io ho scelto, ma i nostri figli no. Sono bambini come gli altri eppure la loro vita non è normale.
Non ricordo neanche più com’è essere normali.
Abitare una casa per più di un anno, andare a parlare con i prof dei figli, promettergli che l’anno prossimo potranno partecipare a questo o a quello.
Ma io non so dove saremo l’anno prossimo.
E se saremo ancora vivi.

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