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La metafora della vitalità

La metafora della vitalità

Hanna Arendt - La sfida da cogliere a cento anni dalla sua nascita: coltivare libertà e fiducia di non essere più strumenti superflui ma cittadine di un mondo migliore

Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2006

Non si poteva non parlare di Hanna Arendt prima della fine del 2006, centenario della sua nascita. La sua “eredità fuori squadra”, di cui ha parlato Il Manifesto il 14 ottobre scorso (dedicandole un opuscolo nel giorno della nascita), è uno dei motivi che rendono difficile inquadrarla: dovunque la si collochi si rischia di sbagliare. E se non la si colloca, si sbaglia comunque: perché se è giusto affermare che Hanna Arendt si sia spesso schierata pronunciandosi in termini chiari su eventi e persone, è anche vero che il suo pensiero non è mai stato semplificatore, né manicheo né scontato, e scaturiva sempre da una pratica rigorosissima di studio e di riflessione. Nel rievocare la figura di una “pensatrice politica” (come amava definirsi) così complessa e importante - ed anche così nota – si rischia di scadere nella banalità, o in cose già dette: di non afferrare lo spessore di un percorso intellettuale che ha attraversato la Storia del Novecento con occhi sempre attenti, critici e perspicaci, tanto da apparire oggi attuale più di quanto non sia stata al tempo in cui è vissuta, ed in cui non sempre è stata compresa.
Per aiutarmi non tanto a valicare quanto a scansare i molti rischi che corro nell’osare dire anch’io qualcosa su Hanna Arendt (che, da neofita, ho letto meno di metà della sua opera e ho partecipato per un anno ad un gruppo di lettura di “La vita della mente”, organizzato dal Circolo Bateson) mi aiuto citando la conclusione fatta da Simona Forti, profonda conoscitrice arendtiana, nel su citato inserto del 14 ottobre: “per Arendt decostruire la tradizione filosofica e politica non equivale tanto ad indagare criticamente una concatenazione storica di idee e dottrine, legate, le une alle altre, dal comune oblio del significato autentico dell'essere. Significa anche e soprattutto assumere queste come segni estremi, ma quotidiani e normali ad un tempo, di quel rapporto che in occidente si è venuto a istaurare tra individuo e mondo, tra costruzione del Sé e percezione dell'altro da sé … è da qui che si deve procedere per pensare insieme a Arendt ma andando oltre Arendt, per cogliere le sfide che oggi il mondo, in parte diverso dal suo, ci sta ponendo … e celebrare la sua grandezza di pensatrice, che mai ci chiederebbe di continuare ad essere esegeti della sua lettera, né di cercare di tradurre in pratica quotidiana i suoi pensieri. Anche perché al cuore della sua riflessione sta il senso di una realtà che costantemente supera e scompagina i progetti che la teoria ha su di essa.”
Ecco! L’idea di “cogliere le sfide” di oggi può aiutare me, e chi mi legge, a scoprire il senso di questo breve articolo. Potremmo provare a chiedere ad Hanna Arendt modalità alternative per districarci nella realtà attuale, complicata dalla presenza di nuovi “totalitarismi” forse meno palesi, ma più capillari ed intrusivi. Che lezione può darmi Arendt di ‘libertà’ e ‘fiducia’ rispetto al mio ‘agire’ e ‘pensare’ nella mia quotidianità? Quale fiducia che il “nuovo inizio introdotto nel mondo” il “nuovo mondo potenzialmente in vita” e garantito da ogni “nuova nascita”, ovvero da ogni essere umano, con cui lei conclude il suo “Le origini del totalitarismo”, possa essere un mondo potenzialmente migliore?
Arendt non dà risposte nette a questo tipo di domande, ma la sua opera può essere letta come uno strumento, quello da lei usato personalmente, di acquisizione della ‘fiducia’ e ‘libertà’ necessarie a divenire persone umane non più ‘superflue’ e in grado di pensare liberamente: non più mezzi strumentali al dio-utile che perde sempre più significato e valore. Scrive in “Lavoro, opera azione. Le forme della vita attiva”: “L’imbarazzo dell’utilitarismo deriva dal trovarsi catturato entro una catena infinita di mezzi e fini senza arrivare mai ad alcun principio che possa giustificare la categoria, cioè la stessa utilità”.
Nonostante sia “di fatto molto più facile agire in condizioni di tirannia che non pensare”, come scrive in Vita Activa, è soprattutto una lezione di libertà di pensiero quella che Hanna Arendt può dare a noi contemporanei. Perchè se si sceglie la via della libertà di pensiero si sta preferendo di stare dalla parte della vita, della continua rinascita e apertura di fronte ad ogni occasione che la vita pone; si sta optando per non lasciar morire ogni giorno di più le nostre potenzialità vitali: “la sola metafora che resta, la sola che sia possibile concepire per la vita della mente è la sensazione della vitalità” (da La vita della mente, p.212).
La persona viva e pensante, il “chi” arendtiano, non si irrigidisce “in un sistema di valori potenzialmente totalitari” e risulta in grado di liberarsi “di fatti ed atti passati di cui non aveva previsto o di cui disapprova le conseguenze”. Come non ha fatto il nazista Eichman, e quelli come lui, “un funzionario automa incapace di giudicare le proprie azioni e che per questo si esclude dalla sfera del perdono”, come scrive Kristeva nella sua monografia su di lei.
Eichman non può essere perdonato, ma non a causa della gravità del suo crimine, ma a causa della mancanza di umanità in lui.
Ma per Arendt c’è una via di uscita: ‘liberarsi’ dalla “reazione a catena implicita in ogni azione di imboccare un corso sfrenato”. Ovvero liberarsi della reazione a catena causata da azioni connesse a concetti come punizione e/o vendetta. Cercare vie alternative per “porre un termine a qualcosa che senza interferenza potrebbe proseguire indefinitamente”.
Nei due capitoletti di Vita Activa dedicati a “L’irreversibilità e il potere di perdonare” e “L’imprevedibilità e il potere della promessa” (da cui sono tratte anche le ultime citazioni), Hanna Arendt propone come alternative possibili il perdono e la promessa, da lei individuati come esempi di “esperienza politica autentica” e come “rimedio contro l’irreversibilità e l’imprevedibilità”.
E scrive: “Le due attività si completano perché una, il perdonare, serve a distruggere i gesti del passato; e l’altra, il vincolarsi con delle promesse, serve a gettare nell’oceano dell’incertezza, qual è il futuro per definizione, isole di sicurezza senza le quali nemmeno la continuità, per non parlare di una durata di qualsiasi genere, sarebbe possibile nelle relazioni tra gli uomini”.
Perdonare e promettere, presentate da Arendt come esperienze politiche autentiche e possibili, rappresentano oggi per noi una scommessa da non disperdere. Una sorta di ‘lieta novella’ lasciataci da Arendt, pur così attenta a non cadere mai nel mondo dell’illusione e a descrivere la realtà in maniera scrupolosa e delineata entro confini teorici verificabili, da scienziata e analista politica qual è stata, piuttosto che idealista. Oggi vorrei imparare a fidarmi di questa ‘lieta novella’ arendtiana: forse è possibile “interrompere ciò che altrimenti sarebbe andato avanti in modo prevedibile”, e perseguire modalità di pensare e di stare al mondo che siano edificatrici di un mondo più sano e meno violento. Forse è possibile trovare mezzi politici che non riducano la persona alla superfluità, mezzi che siano più coerenti ai fini perseguiti: “i mezzi usati per raggiungere degli obiettivi politici il più delle volte risultano più importanti, per il mondo futuro, degli obiettivi perseguiti”, scrive Arendt in “Sulla Violenza”.
Perchè rinunciare alla speranza e fiducia di una continuità del futuro dell’essere umano, che potrebbe non corrispondere a quello del mondo (come diceva lei)?
Ma solo se si rimane in relazione ad altri esseri umani da amare o quantomeno rispettare, è possibile coltivare la speranza e la fiducia necessarie. Come scrive Arendt in Vita Activa: “Chiusi entro noi stessi, non riusciremmo mai a perdonarci alcuna mancanza o trasgressione perchè privi dell’esperienza della persona per amore della quale si può perdonare”.
(05/12/2006)

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