Login Registrati
La medicina tra etica ed economia

La medicina tra etica ed economia

parliamo di bioetica - I DRG hanno avuto il merito di ridurre gli sprechi nella gestione delle strutture sanitarie. Ma chi decide della appropriatezza delle cure?

Prodomo Raffaele Lunedi, 05/12/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2011



Qualche anno fa in una clinica milanese si praticavano interventi chirurgici inutili o addirittura dannosi per il paziente allo scopo di riscuotere i relativi rimborsi regionali. Il principale imputato, un chirurgo toracico, è stato condannato a molti anni di reclusione ed è stato radiato dall’albo per avere, tra le altre cose, operato soggetti affetti da tubercolosi polmonare come se fossero delle neoplasie. In questo modo, al fine esclusivamente di lucrare un maggiore profitto, al posto delle terapie antibiotiche specifiche per la tubercolosi a questi sfortunati malati venivano asportate parti del polmone malato. Più recentemente in un’altra clinica a Palermo, per incrementare i guadagni sono state negate ai malati oncologici ordinarie cure mediche di supporto alla chemioterapia. In maniera subdola, su istigazione della direzione sanitaria, negli ambulatori non si somministrava un farmaco che serve ad attenuare gli effetti collaterali negativi delle terapie antitumorali.



La tecnica truffaldina in entrambi i casi sfruttava a proprio vantaggio le particolari modalità di rimborso oggi in vigore in Italia: il cosiddetto sistema dei DRG (diagnosis related group) che prevede un rimborso forfettario per categorie diagnostiche per cui operare per tumore al polmone è più remunerativo rispetto al praticare una terapia medica. Siccome per la chemioterapia ambulatoriale è previsto sempre lo stesso rimborso allora perché non “risparmiare” sui farmaci, soprattutto se a pagare in termini di sofferenza supplementare è il malato!



Tuttavia, i DRG, anche se il meccanismo si presta a distorsioni più o meno gravi, non per questo vanno demonizzati, essi hanno avuto un grande merito: quello di ridurre gli sprechi e le giornate di degenza inutili favorendo un recupero di efficienza nelle strutture sanitarie. Tutto sta ad applicarli correttamente. Ora se negli esempi precedenti sono stati violati sia il giuramento di Ippocrate che il codice penale, in altre situazioni la questione si pone in termini più sfumati. Ad esempio, è noto che in molte regioni d’Italia la percentuale di tagli cesarei è superiore al 50%, si nasce più mediante un intervento chirurgico che per le vie naturali. Non c’è nessuna ragione scientificamente valida in termini epidemiologici per questa prassi se non il confluire di interessi diversi: quello delle cliniche ad ottenere rimborsi più consistenti (le regioni pagano ovviamente più per un parto cesareo che per uno naturale), quello dei ginecologi (un misto di interesse economico unito alla maggiore programmabilità del cesareo rispetto all’imprevedibilità del travaglio fisiologico) ed, infine, non ultima, la preferenza di alcune donne verso una procedura ritenuta meno dolorosa (anche se la maggioranza delle donne sembrerebbe preferire il parto naturale). In definitiva, si opta in maniera massiccia per l’opzione cesareo sottovalutandone i rischi e ignorando le corrette indicazioni fornite dalle società scientifiche.



Mentre ci si contendono i finanziamenti pubblici proponendo trattamenti inappropriati, inutili o pericolosi si continuano ad escludere dal sistema sanitario nazionale cure mediche importanti. Si pensi a molte terapie riabilitative, ad alcune radioterapie di ultima generazione e alle cure odontoiatriche che inspiegabilmente sono monopolio esclusivo del privato con costi spesso proibitivi per una famiglia media.



Quelle prima ricordate sono manifestazioni patologiche e distorte di un problema di etica medica molto serio e interessante: chi decide della appropriatezza delle cure?



Questo è un problema distinto da quello del finanziamento pubblico. Un sistema sanitario può infatti decidere, come dimostra l’esempio prima riportato delle cure odontoiatriche, di non includere tra le prestazioni erogabili alcune terapie sicuramente utili ed appropriate. Si tratta in tali casi di una valutazione di etica pubblica che esula dal giudizio di appropriatezza in senso stretto. Ma allora, a maggior ragione, chi decide su tale delicata questione? La risposta tradizionale individuava nella corretta prassi scientifica il parametro unico di appropriatezza delle cure: il medico, in un’apoteosi di positivismo scientista e paternalismo etico, doveva farsi carico di porre indicazioni e controindicazioni stringenti. Sarebbe troppo semplicistico voler individuare, per reazione, nel cittadino malato l’unico depositario del potere decisionale in ambito medico. La partita, come dovrebbe essere chiaro dagli esempi concreti richiamati in precedenza, è una partita a tre: medico, cittadino malato e decisore pubblico, tutti ad eguale titolo concorrono alla negoziazione pubblica di quello che va considerato normale o patologico (e quindi, entro limiti di compatibilità finanziaria, curato con fondi pubblici). Si tratta, in definitiva, di riconoscere il carattere storico della nozione di salute-malattia, quello che altre volte abbiamo colto con la metafora delle metamorfosi della salute o che Byron Goood, un antropologo medico americano, identificava con un’altra metafora affine, il cosiddetto narrare la malattia. Come è evidente, qualcosa di più complesso dello schema paternalismo-autonomia predominante nel dibattito bioetico contemporaneo.



 



Raffaele Prodomo, Dirigente Medico legale INPS

Lascia un Commento

©2019 - NoiDonne - Iscrizione ROC n.33421 del 23 /09/ 2019 - P.IVA 00878931005
Privacy Policy - Cookie Policy | Creazione Siti Internet WebDimension®