Quando l'esperienza della maternità viene raccontata da donne, sorgono ambivalenze comunemente taciute a favore della credenza per la quale la femminilità si riduce alla sua funzione fisiologica.
Domenica, 07/09/2014 - Nel patriarcato la maternità è il solo destino possibile per la donna: per merito dei figli, ella potrà testimoniare la sua esistenza, assecondando una società che la reclude nei ruoli di moglie e madre. Per quanto oggi un simile ordine sociale possa apparire obsoleto in Occidente, la quantità allarmante di obiettori di coscienza e, in generale, la condanna sociale che deve subire la donna che decide di abortire mostrano quanto viga ancora la credenza per la quale il genere femminile si riduca alla mera funzione fisiologica.
Nel corso del Novecento, alcune letterate presero parola sulla questione “maternità”: fino ad allora, difatti, a questo riguardo si erano esposti, fieri e saccenti, i più grandi scienziati, professori, intellettuali, psicoanalisti. Uomini, uomini, uomini. Consce dell’inadeguatezza dei loro discorsi, in molte trattarono la suddetta tematica, poiché gli uomini, da spettatori, non ebbero modo di cogliere molte delle ambivalenze che connotano la relazione madre-feto/figlio: laddove dall’esterno si scorge solo felicità e arricchimento, può annidarsi un disagio, un malessere. Ne “Il secondo sesso”, Simone de Beauvoir parla, a questo proposito, del dramma vissuto dalla futura madre durante la gestazione.
«La gravidanza è soprattutto un dramma che si svolge nell’intimo della donna che la sente nello stesso tempo come un arricchimento e come una mutilazione; il feto è una parte del suo corpo ed è un parassita che la sfrutta; lo possiede ed è posseduta da lui; riassume tutto l’avvenire e, portandolo, si sente vasta come il mondo; ma questa stessa ricchezza la annichilisce, ha l’impressione di non essere più niente. Una nuova esistenza si manifesterà e giustificherà la sua esistenza, ella ne è fiera; ma si sente anche in preda a forze oscure, e sballottata, violentata».
La stessa scoperta di una gravidanza può destabilizzare la donna: la dinamica per la quale si porta ad essere ciò che non è o che può non essere grava sulla scelta della singola. Oriana Fallaci, nel suo celeberrimo “Lettera a un bambino mai nato”, racconta i tormenti di una donna che, scopertasi incinta, si interroga senza sosta se continuare la gravidanza sia la scelta migliore da intraprendere. Una donna che non rimane passivamente in balia di un corpo che muta, del normale compimento fisiologico destinato al suo sesso, ma che vive agonizzando la totale mancanza di reciprocità tra la madre e il feto: il bambino che cresce nel suo grembo non le risponde quando lei esausta gli chiede se vuole nascere, relegando ogni responsabilità su di lei.
«Cerca di capire: non è paura degli altri. Io non mi curo degli altri. Non è paura di Dio. Io non credo in Dio. Non è paura del dolore. Io non temo il dolore. È paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al mio ventre. Non sono mai stata pronta ad accoglierti, anche se ti ho molto aspettato. Mi son sempre posta l’atroce domanda: e se nascere non ti piacesse? E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando “Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?”».
Non c’è nessun Dio, nessuna remora sociale, nessun timore: ci sono solo una madre e il suo bambino, un ovulo fecondato, “una goccia di vita scappata dal nulla” che lei avverte colpirle il petto come una “fucilata”. Quando abortisce spontaneamente, in sogno si ritrova accusata in un tribunale, dove i dottori, gli amici e i parenti che l’avevano consigliata durante la gravidanza, la difendono o l’accusano sostenendo tesi contrapposte, ma, a livello logico-etico, ugualmente valide.
«Senti come discutono, come gridano: ha offeso Dio, no, ha offeso le donne; ha dileggiato un problema, no, vi ha contribuito; ha capito che la vita è sacra, no, ha capito che la vita è una beffa. Quasi che il dilemma esistere o non esistere si potesse risolvere con una sentenza o un’altra, una legge o un’altra, e non toccasse ad ogni creatura risolverlo da sé e per sé. Quasi che intuire una verità non aprisse interrogativi su una verità opposta, ed entrambe non fossero valide».
La giustizia non sta nel verdetto di un giudice o nell’eloquenza di un bravo avvocato, ma nella coscienza del singolo. In “Una donna”, Sibilla Aleramo descrive con una lancinante lucidità la scelta obbligata di una madre che, per non rinunciare alla propria dignità e all’amore per se stessa, deve abbandonare il figlio:
«Partire, partire per sempre. Non ricadere mai più nella menzogna. Per mio figlio più ancora che per me! Soffrire tutto, la sua lontananza, il suo oblio, morire, ma non provar mai il disgusto di me stessa, non mentire al fanciullo, crescendolo, io, nel rispetto del mio disonore!»
Ogni fibra del suo essere reclama la sua liberazione; dopo la scoperta di una lettera che la madre scrisse in “un’ora di lucida disperazione”, Sibilla trova il coraggio di andarsene. Quella madre, tanto muta e remissiva, si era sacrificata per i figli e per loro era diventata pazza. Eppure, nonostante l’intelligenza indubbiamente precoce, Sibilla non aveva mai sospettato nulla: dietro a quella carnagione anemica e a quegli occhi tanto facili al pianto, non credeva potesse esserci una coscienza che aborriva il sacrificio richiestole in quanto moglie e madre. Agli occhi ugualmente ingenui di Arturo (nel “L’isola di Arturo” di Elsa Morante) sfugge che nell’apparente inconsapevolezza della matrigna Nunziata si cela una sofferenza sacrificale che la società patriarcale non riconosce e che dunque non può essere esternata. Per l’uomo, difatti, la donna deve ambire alla maternità: come sostiene Mantegazzi, la maternità è il destino nonché il maggiore piacere delle donne e il sacrificio del sé nella cura del figlio è insito nella loro costituzione biologica. Nel trionfo del determinismo biologico, alla donna non è dato avvertire quell’insita mutilazione connessa inestricabilmente all’accrescimento di cui parla Simone de Beauvoir. Laddove la maternità venga imposta alla futura madre, prescindendo dalla sua situazione psicofisica, il torto si commette tanto nei confronti della donna, quanto dei figli.
«È necessario che la giovane donna sia in una situazione psicologica, morale e materiale che le permetta di sopportarne il peso; altrimenti le conseguenze saranno disastrose. […] La donna equilibrata, sana, cosciente delle sue responsabilità è l’unica capace di diventare una “buona madre”. […] Un tale obbligo non ha niente di naturale: la natura non potrà mai imporre una scelta morale; questa implica un impegno. […] Il rapporto tra genitori e figli, come quello tra gli sposi, dovrebbe essere voluto liberamente».
Figli che, come sostiene Stekel,«non sono surrogati dell’amore; non sostituiscono lo scopo di una vita spezzata; non sono un materiale destinato a riempire il vuoto della nostra vita; sono una responsabilità e un pesante dovere; sono i germogli più nobili dell’amore libero. Non sono né il trastullo dei genitori, né il compimento del loro bisogno di vivere, né succedanei delle loro ambizioni insoddisfatte. I figli sono l’impegno di formare degli esseri felici».
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