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La mappa del tesoro, il racconto di Matilde Tortora

La mappa del tesoro, il racconto di Matilde Tortora

"Io stessa sono stata chissà quante volte un rito cui sottostare e l’imperio che ad esso sempre si accompagnava...."

Martedi, 28/07/2020 - La mappa del tesoro, il racconto di Matilde Tortora

Io sono divenuta, invecchiando, un essere collettivo, e intendo l’essere stata la Peppa lungo tutta la passeggiata che trainava il suo carrettino con sopra i bruscolini, le noccioline tostate, le gomme da masticare, cose così e noi in fila a seguirla, finché alla fine della passeggiata, arrivate quasi al giro del ponte, l’istitutrice ci permetteva di fermarci, sciogliere la fila e avvicinarci al carrettino.

E, mentre contavo le poche lire che sarebbero bastate per lo più a comprare un sacchettino di semi salati, io sbirciavo l’aria stanca della Peppa, le sue gambe con le vene varicose, pure la pioggerella sottile che non ci risparmiava dalla passeggiata quotidiana e divenivo in un tutt’uno una donna anziana, i bruscolini, le poche lire che avevo in mano, la pioggerella.

Anche la parmigiana di cardi fatta al forno sono stata, che, tornata da scuola trovavo come piatto unico e ne avevo avversione e che assieme ad un conato di vomito avrei schiacciata sotto i piatti delle compagne e di conseguenza sarei rimasta digiuna fino a sera e affamata.

Era come avere avuta una mappa assegnata e fin da subito sentire i detriti ad ogni piè sospinto, scorgere buche proditorie o vette inaccessibili. E andavo, a volte lentamente a volte con slanci e divenivo la gioia dell’imparare, il sorriso burbero del bidello Ceracchi, il busto di Giosuè Carducci che campeggiava nell’androne del Liceo, per essere stato lì a sovrintendere agli esami di stato e le bacheche accanto con i risultati e anche il mio nome.

Divenivo anche devota ad un dio romano, il dio Clitunno, cui il poeta aveva poi dedicato, per averle in quei giorni visitate, un’ode alle sue Fonti. E nel contempo ero i resti di un tempietto antico, acqua sorgiva e una strana ninfa che non sapeva nuotare presa ogni volta dalla paura di annegare.

Sono stata tutte le insufficienze delle compagne che pure avevano un loro perché e a volte perfino un fascino sottile, e anche mai un’insufficienza per tutti i cinque anni, che mi fece meritare di stare poi per decenni in quella bacheca nell’albo d’oro del Liceo, con anche tutti i ghirighori dorati che lo contornavano, talmente d’oro che poi nessuno dei miei fratelli volle iscriversi lì e se ne comprende il motivo!

Sono stata anche la leggera couperose in volto di Salvatore Quasimodo, appena due anni prima insignito del Premio Nobel, che venne poi a tenere una conferenza alla Biblioteca Comunale e ci portarono noi liceali a sentirla e alla domanda “chi vuole fare una domanda?” mi trovai catapultata (come ogni volta accadeva) da tutti compagni e professori al suo cospetto, e per un istante che mai dimentico, fui il suo viso accaldato, i suoi umanissimi occhi interrogativi e il dovere congegnare una domanda sensata.

Anni prima ero stata anche un tripudio di pezze americane che ‘O Ndrione nel cortile sotto casa radunava per rivenderle, ero stata Mastr’Antonio che nel sottoscala viveva con tutta la famiglia in un’unica stanza e appesi alle travi del soffitto teneva dei salami e qualche provolone per la riffa che avrebbe fatto ogni due settimane.

E io divenivo di notte nei sogni quelle travi pesanti da cui pendevano quelle cose bastanti a sfamare per tanti giorni una famiglia se le avesse vinte, i numeri che sarebbero stati estratti, la voce della riffa imminente e un uomo claudicante nel pieno della sua maturità, che s’ingegnava in quel modo a campare.

E fui per lungo tempo anche diafana come le carte veline che scorgevo nello studio del nonno, che servivano a battere a macchina più copie di uno stesso documento e fui anche poi alcuni giovani avvocati di grande charme virile che venivano nello studio del nonno avvocato a fare praticantato e che io scorgevo di pomeriggio venire, anche un po' col cuore in subbuglio senza ancora capire il perché.

Sono stata Fortunatina che si asciugava in cortile i capelli, appena lavati, al sole e a volte cantava di contentezza ed io mi sporgevo dal balcone a guardarla. Ma anche le voci astiose, le liti, le botte che rimbombavano nelle case vicine e io mi appiattivo alle pareti giurandomi che mai mi sarei sposata da grande.

Per anni ho temuto pure di avere i capelli rossi, perché tra tutte, era una vicina dai capelli rossi la più bastonata e insultata dal marito e, scorgendo le sue bellissime figlie bambine anch’esse tutte dai capelli rossi, m’immedesimavo nel loro futuro tragico destino e cominciavo a piangere, senza motivo a detta dei miei che mi scorgevano in lacrime.

E fui pure il diniego che mia madre oppose decisa alla richiesta della giovane che venne su a chiederle se poteva usare il suo ferro da stiro, aveva evidenti sulla gonna le impronte dell’ardore del suo innamorato con cui si era appena intrattenuta in mezzo alle scale e non avrebbe saputo come giustificare quell’impronta decisa, quella tanto eloquente macchia e fui allora anche la gonna blu cui mia madre teneva tanto, che ella diede all’incauta ragazza, con uno sguardo severo, tanto severo che mai io le avevo visto tale in viso.

Sono stata i miei vicini senza volerlo essere e lo stendardo che un mese prima della festa del santo patrono del paese issavano per la via principale su di una fune tesa tra le case, affinché nessuno potesse dimenticare quello appuntamento rituale e ognuno si rifornisse di un abito nuovo e di letizia bastante per tutto l’anno a venire.

Io stessa sono stata chissà quante volte un rito cui sottostare e l’imperio che ad esso sempre si accompagnava. Consenziente senza volerlo esserlo, e sempre coi quei detriti incombenti per strada, pur avendo indosso un abito nuovo e una certa provvista di una qualche letizia.

E pure Goethe sono stata nell’esatto momento in cui lessi questa sua frase: “io sono divenuto, invecchiando, un essere collettivo”.

Foto: Matilde con sullo sfondo il ponte dlle torri


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