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La magia del Seicento in un pennello

La magia del Seicento in un pennello

Pittura/ Elisabetta Sirani - Il disegno, i colori, la prodigiosa tecnica di una professionista della pittura che fece innamorare di sé i collezionisti di mezza Europa

Giulia Salvagni Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2005

Ritratta in abiti aristocratici, una giovane impone la propria immagine nei suoi quadri. È “l’angelo vergine” della pittura bolognese del Seicento. È Elisabetta Sirani che “dipinge da homo” e opera “non solo (…) mai da donna”, anzi “più che da homo”, così è descritta nel libro del canonico Carlo Cesare Malvasia.
Consapevole della propria immagine e del proprio successo professionale, Elisabetta fu una pittrice che all’epoca, meglio di altre, riuscì a costruire intorno a sé un’aura di mistero. Colpisce, visitando la sua mostra di Bologna, la grande quantità di autoritratti. Un numero tale non trova pari in altri artisti. Certo è che Elisabetta doveva poter affermare le proprie doti in un’attività dominata dagli uomini, ci riuscì grazie alla propria cultura ed alla propria determinazione.
Lavorò nella seconda città dello Stato papale, la colta Bologna, dalla quale non si spostò praticamente mai. Abitò nella casa di famiglia, frequentata dagli aristocratici committenti del padre, anch’egli noto pittore di scuola reniana, Giovanni Andrea Sirani (di cui sono presenti in mostra la Sibilla di Vienna e l’Annunciazione da Rimini). Il padre-maestro, uno dei più fedeli allievi di Guido Reni, pare fosse ben felice della precoce dote della figlia e della sua generosa produzione apprezzata dai ricchi clienti. Tra questi figuravano, come scritto nella lunga lista della “Nota delle pitture fatte da me”: i principi di Toscana, le duchesse di Parma, di Baviera, di Braunschweigh, accanto al maestro di musica e al pescatore di casa.
Nella mostra bolognese, la prima antologica mai dedicata all’artista, i suoi dipinti vengono messi a confronto con altri del Guercino, di Guido Reni e di pittori reniani tra i quali Giovan Francesco Gessi, Simone Cantarini, Flaminio Torri, fino a Carlo Cignani e Lorenzo Pasinelli.
La prima importante commissione pubblica di Elisabetta arrivò a diciassette anni, il Battesimo per la chiesa bolognese di san Girolamo alla Certosa, che sancì l’esordio ufficiale della pittrice che rivelò subito il suo vivace cromatismo.
Rispetto alla pacatezza espressiva del padre, l’invenzione delle inquadrature e la composizione delle figure appaiono di una prorompente vitalità. Vitalità che si traduce, nella rielaborazione dei temi classici, in originali novità iconografiche rese con una tipica sensibilità femminile. Le sue madonne con bambino, infatti, appaiono piuttosto donne che allattano o che abbracciano il bambino con gesti carichi di sensualità affettiva e sentimentale. Nelle rappresentazioni di eroine del passato, che dipinse come donne coraggiose ed intelligenti, proiettò la sua visione della vita dando l’impressione di produrre altrettanti manifesti per l’emancipazione del proprio genere. Forse non è un caso che suo sia un “dipinto icona” del Museo delle donne artiste di Washington.
Nobili da tutta Europa andarono in visita alla casa paterna per veder lavorare la “Gemma d’Italia” o il “Sole d’Europa” come la definivano. Ed Elisabetta si fece protagonista della propria arte trasformandola anche in spettacolo pubblico. Lasciava stupiti i suoi ammiratori per la velocità con cui appuntava su carta le invenzioni dei suoi soggetti: pochi tratti di matita completati con tocchi di acquerello. Curiosa e attenta, possedeva una tecnica tesa verso una continua evoluzione che la portò, nel corso della sua breve vita, verso una pittura sempre più neoveneta, sia per la modalità di stesura a macchie che per la luminosa e vivace scelta cromatica.
Di lei si invaghì, in forma platonica, il canonico Malvasia, suo maggiore promotore e biografo, che scriverà Felsina pittrice (1678). Intorno a lei si riunirono numerose giovani desiderose di migliorare la loro tecnica artistica. Fondò così la prima accademia professionale per giovani donne in Europa, aprendo nuove vie alla produzione culturale femminile e alla trasmissione di sapere da donna a donna. Elisabetta Sirani, sfidando le consuetudini di studio ed i princìpi teorici dell’educazione artistica al maschile, contribuì a creare lo sfondo di una Bologna che si apprestava a diventare un ambiente fecondo per numerose donne bolognesi illustri, attive dalla metà del Seicento fino al Settecento ed oltre. Morì all’età di ventisette anni stremata dal lavoro. Si disse che fosse stata la giovane serva invidiosa ad avvelenarla. La verità, dopo il processo, confermò che si trattò di morte naturale dovuta ad un’ulcera perforata. Per rendere possibile l’allestimento di questa mostra, moltissime sono state le opere uscite da case di collezionisti privati di tutto il mondo. Interessante e piacevole l’allestimento, curato dallo scenografo del Teatro Comunale di Bologna Italo Grassi. La mostra è stata resa possibile grazie al contributo del Gruppo La Perla. Sarà aperta fino al 10 aprile, presso il Museo Civico Archeologico di Bologna.

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