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La lunga marcia delle cinesi verso la parità

La lunga marcia delle cinesi verso la parità

CINA - La parità per tutte le donne cinesi è ancora un lontano miraggio. E faticano ad entrare nell’agone politico

Cristina Carpinelli Domenica, 14/04/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2013

Nella Cina del turbo-capitalismo le donne siedono al timone di società multimiliardarie, ma faticano a entrare nell’agone politico. A trent’anni dalla fine del maoismo le cinesi, di là dalla retorica dell’uguaglianza, sono ancora l’anello debole della catena, in una cultura pesantemente maschilista.

Il XVIII Congresso del Partito comunista cinese (8-14 no. 2012), nel delineare i nuovi assetti di potere, ha confermato la sua secolare struttura sessista. Liu Yandong, unica donna tra i 25 membri dell’Ufficio Politico (Politburo) del Partito comunista cinese (Pcc), non ce l’ha fatta a entrare nel Comitato permanente del Politburo, il ristretto organo politico che, di fatto, governa il paese. E le possibilità per il futuro sono praticamente nulle, dato che in Cina il rinnovo delle cariche per questo organo politico avviene ogni dieci anni, che i politici vanno in pensione a 70 anni e che Liu Yandong ha già compiuto 67 anni. La sua bocciatura evidenzia ancora una volta il limite della politica delle pari opportunità in Cina.

Com’è noto, nemmeno la politica Wu Yi, conosciuta all’estero come la “lady di ferro cinese”, che aveva condotto i negoziati per l’ingresso della Cina nel WTO, membro del Politburo, ministro della Sanità e vicepremier della Repubblica popolare cinese, era riuscita a entrare nel Comitato permanente del Politburo, nonostante avesse raggiunto le più alte cariche politiche.

Ma ritorniamo a Liu Yandong. Chi è questa donna, che ha dedicato quasi mezzo secolo della sua vita alla politica? Nata a Nantong, città nella provincia del Jiangsu, Liu è figlia di un viceministro dell’agricoltura in carica ai tempi di Mao. Nel 1964, a diciannove anni, si è iscritta al partito comunista, quindi è andata a Pechino a studiare chimica all’importante Università Tsinghua, dove ha conosciuto Hu Jintao e il suo attuale successore, Xi Jinping. Da quel momento, cominciando dalla Lega giovanile, Liu ha iniziato la sua ascesa ai vertici della piramide politica, arrivando prima a guidare il dipartimento centrale per il Fronte unito del lavoro e poi a far parte del Politburo. Liu ha saputo costruirsi nel tempo una reputazione di leader efficiente e prudente. Ha gestito le politiche educative e, soprattutto, ha contribuito a disegnare il pacchetto di stimoli che ha messo in sicurezza la Cina durante la crisi economica del 2008. Oggi Liu Yandong è un deputato dell’Assemblea Nazionale del popolo (il parlamento cinese) ed è un membro del Politburo. Lei e Sun Chunlan, promossa di recente alla carica di segretario del partito di Tianjin, sono le uniche due donne a sedere nel Politburo del Pcc, composto di 25 persone.

Uno scenario politico piuttosto deludente se letto in chiave della rappresentanza di genere, tenuto conto tra l’altro che dal 2005, anno in cui Wu Yi lasciò il ministero della Salute, i dicasteri sono tutti presieduti da uomini. In sessant’anni di comunismo solo sei donne si sono conquistate le più alte cariche regionali, quella di segretario di partito e di governatore. Oggi, nelle 33 regioni cinesi, le donne occupano solo due alte cariche: quella di segretario di partito del Fujian e di governatore dell’Anhui. Le rimanenti 64 sono occupate da uomini. La presenza femminile all’Assemblea nazionale del popolo è solo del 21%, nel Comitato Centrale (CC) uscente appena 13 dei 205 membri erano donne, mentre tra i 2268 delegati dell’ultimo Congresso del Pcc solo 521 erano donne (23% dei delegati). Nel nuovo CC le quote rosa sono del 4,9%, in calo rispetto al 7,6% del 1969. In diminuzione anche le iscritte al Pcc: degli 83 milioni di tesserati al partito, solo il 23% sono donne. “Nell’ultimo decennio ci sono stati dei miglioramenti” sostiene Tamara Jacka, ricercatrice dell’“Australian National University” ed esperta di politiche di genere in Asia. “Ma solo ai livelli bassi e medio bassi della struttura politica”.

Molti sono ancora i passi da compiere in direzione della parità, ma Bailing Xiao, presidente della Fondazione delle donne dello Hunan, non è pessimista: “Il partito negli ultimi anni ha attribuito maggiore importanza al coinvolgimento femminile nello sviluppo delle organizzazioni di partito dal basso” e “in termini di promozioni, sia il partito che il governo hanno dato priorità alla nomina di dipendenti di sesso femminile tra candidati che presentavano qualifiche simili”. Anche Hou Jingjing, professoressa alla NanJing Normal University, che ha partecipato come delegata agli ultimi due congressi del Pcc, è piuttosto ottimista. Hou si è detta compiaciuta del fatto che i suoi suggerimenti riguardanti l’inclusione delle donne nella vita del partito siano stati inseriti nel documento finale del congresso.

Disparità di genere sono presenti anche nel mondo lavoro. Negli ultimi trent’anni di crescita economica il gender pay gap non si è ridotto. Nelle aree urbane i salari femminili sono più bassi di quelli maschili del 67%. Nelle zone rurali la situazione è peggiore. Una donna che lavora nelle campagne percepisce poco più del 50% di un salario maschile. Decisamente meglio è la situazione ai vertici del mondo del business. Un report della società di consulenza fiscale “Grant Thornton International”, rileva che otto aziende-top cinesi su dieci hanno donne in ruoli chiave. Un dato incoraggiante se si pensa che le amministratrici delegate cinesi sono ormai il 39%, rispetto al 20% delle americane e al 12% delle europee. L’Italia non arriva al 4%. Buona la situazione anche nel settore statale: l’Istituto nazionale di statistica evidenzia che il 67% degli uffici pubblici, compresi quelli locali, è guidato da una dirigente.

Ma la parità per “tutte” le donne cinesi è ancora un lontano miraggio. Nella teoria, il governo cinese mostra da decenni una particolare attenzione allo sviluppo e al progresso delle donne. L’articolo 48 della Costituzione cinese sancisce la piena parità di genere a tutti i livelli. Eppure la realtà è molto distante da ciò che è scritto sulla carta o elaborato con programmi quinquennali o decennali, a dimostrazione di quanto sia complicato sradicare una mentalità millenaria, contraddistinta da una profonda e radicata asimmetria di genere, di cui le donne stesse faticano a liberarsi. Da un sondaggio realizzato nel 2010, il 62% degli uomini e il 55% delle donne sostengono ancora che il posto riservato alla donna sia la casa.

Nel rapporto mondiale sulla parità di genere (2012 SIGI rank), la Cina si colloca al 42° posto tra gli 86 paesi esaminati. Nello stesso rapporto sono evidenziati i numerosi casi di violenza domestica e di matrimoni in età precoce. Le politiche demografiche imposte da Pechino penalizzano tuttora le bambine. La politica del figlio unico, introdotta nel 1979 da Deng Xiaoping, continua a provocare casi di aborti spontanei o forzati, d’infanticidi, di mancata registrazione alla nascita, di misteriose scomparse di bambine.

Eppure le donne sono tante e rappresentano una risorsa vitale per il paese. In base ai dati dell’ultimo censimento (2010) in Cina la popolazione femminile ha superato i 630 milioni d’individui e rappresenta il 48% circa della popolazione totale. Gli ottimisti credono che le migliori studentesse cinesi di oggi potranno invertire nel tempo la rotta (il 78% delle universitarie dichiara di aspirare a una carriera che le proietti al comando). Nel frattempo, si affacciano nel mondo politico le quote rosa: nelle città una delle quattro cariche politiche principali dovrà essere assegnata a una donna. Così hanno deciso i vertici del Pcc all’ultimo Congresso. Una scelta applaudita da Yang Aaiun, direttore del “Centro Computer and Network” del Biking Amministrative College, secondo cui “le donne possono portare all’interno della politica qualcosa che gli uomini non sono in grado di offrire”. Per Yang Aaiun, “le donne sono più tolleranti e compassionevoli, rispetto agli uomini (…) più in grado di fare da collante in una società sempre più incline a esplodere in conflitti”.





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