- A cento anni dalla nascita, Parigi e non solo rendono omaggio ad un’artista fragile e forte adorata dal popolo
Alma Daddario Lunedi, 31/08/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2015
Di monelli di strada senza casa e senza famiglia che vivevano di espedienti e piccoli furti, cantanti o saltimbanchi improvvisati, nella Parigi degli anni ‘30, parla una canzone popolare: “Les momes de la cloche”. EdithGassion, in arte Piaf, era una di loro. La leggenda vuole che sua madre, Annette Jeanine Maillard, cantante girovaga di origine livornese figlia di un domatore di pulci, colta dalle doglie per strada, fu aiutata a partorire da un “flic” nel quartiere povero di Belleville. Il padre, Louis Gassion, era un artista di strada: saltimbanco e contorsionista. In quel periodo Louis si trovava al fronte della prima guerra mondiale e Annette, con lo pseudonimo di Line Marsa, per sopravvivere riprese la sua attività girovaga subito dopo il parto e affidò la piccola ai genitori, anziani e ubriaconi.
Quando Louis tornò dal fronte trovò un corpicino malnutrito e coperto di infezioni. Per questo non trovò di meglio che affidare la bambina alla sorella, tenutaria di un bordello. Ben presto la piccola diventò la mascotte delle “signorine della casa”, ma i suoi guai non erano finiti. A tre anni rischiava di rimanere cieca per una cheratite mal curata. Praticamente chiusa in casa, sola, per consolarsi Edith cantava, e i vicini aprivano le finestre per ascoltarla. Finalmente, quasi all’improvviso, la sua vista migliora. Il padre decide nel frattempo che la bambina, ormai guarita, non può continuare a vivere con una zia “maitresse” in un ambiente inadatto, la porta con sé, in un circo dove lavora come saltimbanco. Ma il circo fallisce e Gassion si ritrova senza lavoro. Non gli resta che tornare al suo primo palcoscenico, la strada, insieme a Edith.
Quella bambina fragile e con una voce straordinaria commuove il pubblico che elargisce generose elemosine. A diciassette anni conosce un giovane fattorino, Louis Dupont, detto “Petit Louis”. Qualche mese più tardi rimane incinta di una bimba: Marcelle. Anche dopo la nascita di Marcelle, continua la dura vita di stenti. La bimba si ammala e muore di meningite. Edith fa una colletta per provvedere alla sepoltura, ma non racimola abbastanza. Mancano dieci franchi all’importo richiesto dal municipio, e per quei dieci maledetti franchi decide di prostituirsi.
Dalla strada ai locali malfamati il passo è breve. Ma proprio in uno di questi, in Rue Pigalle, viene notata da Louis Leplée, proprietario di un cabaret degli Champs-Élysées. Sarà il suo primo Pigmalione. Dopo qualche mese Louis decide di lanciarla: organizza per lei una grande soirée invitando nel suo locale i più bei nomi di Parigi. Tra gli altri sono presenti Maurice Chevalier e Mistinguett. Edith va in scena con il solito striminzito vestitino nero cui è affezionata. Pallida, immobile, illuminata da un occhio di bue. Solo le mani si muovono, e la voce. “Una voce così potente - confiderà Jean Cocteau dopo averla sentita cantare - che proviene da un corpo così piccolo, ha del sovrannaturale”. Ma papà Leplée un giorno viene assassinato misteriosamente. Dopo qualche mese Edith si riprenderà dalla disgrazia, grazie all’incontro con il suo secondo benefattore, quello definitivo: Raymond Asso. Edith ha vent’anni, lui più del doppio. Asso è un uomo colto, sensibile, ed è un Pigmalione esigente: vuole che la “monella” impari a vestirsi e a pettinarsi, a lavarsi i denti almeno due volte al giorno, a non bere fuori pasto, a non fumare. È grazie a lui che conosce Jean Cocteau, scrittore e commediografo di successo, che scriverà per lei “Il bell’indifferente” e “La voce umana”. Cocteau diventerà il suo più grande amico, sino alla morte.
La guerra purtroppo separerà Edith da Asso. Seguirà un periodo intenso di lavoro e amori: Yves Montand e Charlez Aznavour, lanciati da lei come cantanti. Dal 1945 in poi Edith è protagonista di grandi tournée che ne consacrano la fama nel mondo in Svizzera, Grecia, Italia, Norvegia ed Egitto. A New York incontra quello che sarebbe stato il vero grande amore della sua vita: il pugile francese Marcel Cerdan che, a dispetto del suo aspetto massiccio, è un uomo dolce e gentile, delicato e generoso, privo di malizia, completamente diverso dagli uomini che sino ad allora la Piaf aveva frequentato. Il 22 giugno del 1949 Cerdan perde il titolo di campione del mondo contro Jack La Motta. Edith, che non è con lui perché impegnata in una serie di concerti, lo prega di raggiungerla al più presto con il primo aereo. Marcel obbedisce, l’aereo però precipita. Il dolore prostra Edith a tal punto che le impedisce di esibirsi in pubblico per mesi. Dopo il silenzio, nel 1951, riprende l’attività concertistica con una nuova canzone, scritta da lei dopo la morte di Cerdan: “Hymne à l’amour”. È il trionfo. Nel 1952 accetta di sposare il compositore Jacques Phillis. È di questo periodo un grave incidente d’auto che le procura la frattura delle costole e delle braccia. Edith vuole continuare a cantare, e per sopportare il dolore delle fratture si fa iniettare della morfina. È attratta da quel rimedio che fa dimenticare il dolore, ma ne ha anche paura: la madre era morta di overdose nel 1945. Nel 1956 si separa dal marito: in quel periodo aveva conosciuto George Moustaki, che avrebbe scritto per lei “Milord”. Moustaki non ha un carattere facile: è ribelle, intollerante, infedele. Distrutta da un faticosissimo tour americano e dalle continue liti con Moustaki, Edith nel 1959 ha un altro grave incidente automobilistico. Lei stessa è alla guida della vettura. Dovrà subire una serie di dolorosi interventi dovuti alle emorragie interne. Ricade nell’abuso di alcool e droga. Geoge Moustaki la lascia.
Di nuovo è a pochi passi dalla fine. Si salva grazie all’incontro con un musicista, Charles Dumont, che le propone di interpretare quello che sarebbe diventato un altro grande successo: “Non, je ne regrette rien”, ma questo non basta a tirarla fuori dalla disperazione. È un periodo di depressione e tristezza. Per non sentirsi sola invita a casa amici di ogni genere, spesso gente che approfitta del suo stato per derubarla. È senza risorse, senza più voglia di vivere, quando incontra Thèo Lamboukas, un giovane parrucchiere greco, presentatole da un comune amico. Da anni Thèo è segretamente innamorato di Edith, le chiede subito di sposarla, vuole prendersi cura di lei, anche se tra loro ci sono vent’anni di differenza. Insieme a Thèo, Edith ricomincia a condurre una vita più tranquilla e riprende a cantare in pubblico. Nel 1962 i due decidono di coronare il loro legame con il matrimonio greco-ortodosso. Purtroppo il giorno dopo Edith viene ricoverata per un malore al fegato, intossicato dall’abuso di morfina. In clinica Thèo non la lascia mai: la sorveglia, la accudisce, la pettina. Ma un giorno di riposo per il giovane provoca la tragedia: un ammiratore incosciente che va a trovarla in ospedale, la convince ad interrompere la dieta per mangiare un’omelette, di cui è ghiotta. È il coma epatico.
L’annuncio della sua morte nell’ottobre del 1963 provoca un’ondata di commozione in Francia e in tutto il mondo. Ai funerali sono presenti quarantamila persone, ma niente preti né preghiere ufficiali, perché la chiesa di Roma aveva decretato che “la cantante era vissuta in stato di pubblico peccato”. Tra i presenti Charles Aznavour, Yves Montand, Marlene Dietrich, sua grande amica, e tanti altri confusi tra la folla. “È stato un trionfo, proprio come lei avrebbe voluto”, commentarono tutti i giornali. Poco dopo Jean Cocteau, incaricato di scriverne l’elogio funebre, sarebbe morto d’infarto.
HYMNE A L’AMOUR
scritta da Edith Piaf per Marcel Cerdan
Potrebbe oscurarsi il cielo su di noi, e la terra sprofondare.
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