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La giustizia di genere<br>

La giustizia di genere

S/bilanciamenti - L'habeas corpus, la neutralità e la cittadinanza da omologare al modello unico tradizionalmente maschile

Giancarla Codrignani Martedi, 11/01/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2011

Come mi piace questa foto che inquadra, sullo sfondo di arcaici parrucconi, la baronessa Brenda Marjorie Hale, unica donna fra i dodici giudici della Corte suprema del Regno unito. Mi piace anche perché la lady sorridente ha posto la domanda scomodissima sull'imparzialità del/della giudice: investe anche la questione di genere. Il Guardian ha pubblicato la sua domanda sulla neutralità della norma patendo da un libro recente di Rosemary Hunter, Clare McGlynn ed Erica Rackley, che, sulla "giurisprudenza femminista" - teoria e pratica -, sembra mettere in crisi la tradizionale richiesta fatta ai giudici di applicare la legge senza parzialità. Infatti, per il senso comune, il giudice è al di sopra delle parti: non è accettabile "parteggiare" nel momento del giudizio, dal momento che già accusa e difesa hanno presentato tutte le ragioni a favore e contro. Per esempio, poteva essere repubblicano, ma se Felice Orsini aveva cercato di ammazzare il re, chi lo giudicava aveva davanti un regicida e doveva seguire le leggi. La responsabilità del giudizio è una cosa seria, ma sappiamo anche che non sempre nelle controversie giudiziarie c'è unanimità e, in particolare in Inghilterra - dove non si seguono i codici di Giustiniano - il personale senso di giustizia (che non è oggettivamente uguale per tutti) ha la sua parte nella sentenza.

E per le ragioni di genere? come - dice lady Brenda - il giudice (himself or herself) deve essere "fedele al giuramento" e contemporaneamente "osservatore neutrale del mondo"? Lasciate le casistiche anglosassoni all'Inghilterra, pensiamo all'Italia per ricordare quante volte sono stati maschilisti, cioè parziali a favore del proprio sesso, i legislatori e i giudici. Vi sembra neutra la legge che consente alla donna di fare un figlio con il primo che passa e non con la fecondazione assistita? O è imparziale il giudice che ritiene che le botte o lo stupro sono meno gravi se agite dal marito? Sull'imparzialità, dunque, c'è molto da ridire: il limite umano che - fortunatamente - evita che il giudice sia sostituibile da un robot computerizzato, incrocia il genere in forme del tutto diverse dai preconcetti culturali introiettati o dalle tendenze politiche. L'accusa rivolta a un giudice del lavoro di essere comunista non ha nulla a che vedere con la lettura falsamente neutra dei reati commessi dagli uomini contro le donne (e, per quel che è possibile pensare, viceversa).

Oggi la biopolitica, coltivata prevalentemente da giuristi e pensatori maschi, dovrebbe modificare la concezione stessa del diritto, se è vero che il corpo è chiamato ad integrare la persona ben diversamente da come si è mai dato nelle più umane teorie personalistiche. Ma il corpo è sessuato; e l'umanità conosce nel corpo non neutro, ma in quello dell'uomo e della donna, la prima delle differenze che costituiscono la vita. Quando studiamo l'habeas corpus, riconosciamo uno dei fondamenti dei diritti umani, ma la lettura antica ci sembra monca: oggi l' habeas corpus si deve estendere a rifondare la norma. Il corpo è neutro solo nel vocabolo latino, mentre nella difesa della dignità che sancisce l'inviolabiità non a parole, si ricollega a donne oltre che ad uomini, ambedue portatori di un senso del vivere non zoologico. Infatti veniamo scoprendo la "biopolitica", non la zoopolitica (anche se non escludiamo il rispetto dei nostri fratelli mammiferi e del continuum di quel mondo che vorremmo fosse non solo energia fisica da conoscere e usare senza violenza).

Intanto il corpo delle leggi resta "scorporato" e la biopolitica pura teoria. Restiamo sempre al "corpo del reato". Non mi piace parlare del mio paese in questo momento né per le leggi né, tanto meno, per la politica. Penso al Brasile, dove è stata eletta alla Presidenza Dilma Roussef, che ha sulle spalle l'eredità scomoda di Lula, uno di cui la stampa ha detto che era "come avvolto da un'aureola" (come se di lui si dicesse: "se potesse lo farebbe, non lo sta facendo perché non può") e che ha presentato Dilma come "la madre". Le donne (e i loro diritti) si possono dunque sentire rappresentate da un'immagine fisica (sempre meglio che da una velina); per il resto diranno che "non si può avere di più": la campagne elettorale non ha avuto riscontri di particolare esaltazione del potere femminile, tenendo conto che il Brasile è andato al ballottaggio per la contrapposizione di un'altra donna, Marina Silva del Partito Verde che non si è schierata a favore della compagna di partito (e di genere). Normale corporativismo politico. Siccome dentro questa crisi mondiale - anche se il Brasile sta meglio di molti paesi europei - le politiche sociali non potranno essere alternative all'egoismo dei poteri forti, Dilma - come dice un sociologo dell'Università di Rio - sarà trattata "alla pari di tutti gli altri" (ovviamente le "altre" non contano) e avrà contro perfino Leonardo Boff, noto teologo di sinistra, che la richiama a realizzare quello che non ha fatto Lula, cioè risolvere la questione fiscale e quella agraria e realizzare "in modo integrale e popolare" la democrazia nelle campagne riducendo la "favelizzazione delle città". Dilma o Lula, il corpus politico resta indifferenziato insieme con la cittadinanza da omologare al modello unico tradizionalmente maschile.



(11 gennaio 2011)

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