Pensioni / 1 - Non si può parlare di equiparazione del lavoro femminile con quello maschile, senza risolvere prima il problema della condivisione del lavoro familiare e domestico, del suo riconoscimento sociale, della disparità nell’accesso all’occu
Angelucci Nadia Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2009
Il Ministro Brunetta, responsabile della Pubblica Amministrazione e dell' Innovazione, in relazione alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (la sentenza rileva come in un sistema totalmente contributivo in cui tanti più anni di contributi si hanno, quanto più aumenta l’importo della pensione di vecchiaia, stabilire per legge che una donna debba avere meno anni di contributi di un uomo sia una discriminazione), che impone all’Italia l’innalzamento dell’età di pensionamento delle donne dipendenti pubbliche a 65 anni, cancellando così le differenze di trattamento tra i due sessi, ha inviato alla UE una comunicazione dichiarando che l’equiparazione verrà realizzata. La sentenza, e la conseguente affermazione del Ministro, hanno suscitato un polemico dibattito che ha messo in luce posizioni differenti: chi considera l’equiparazione dell’età pensionabile una misura che va nella direzione della cancellazione della discriminazione e chi la pensa esattamente all’opposto. Vediamo perché.
I favorevoli
Chi è favorevole all’applicazione della sentenza della Corte di Giustizia Europea (Radicali, Governo e il Pd con una posizione interlocutoria legata all’aumento dei servizi di Welfare) costruisce la propria opinione su due dati: da una parte solo il 17% delle donne conclude il percorso lavorativo con la pensione di anzianità mentre la maggior parte, a causa della vita lavorativa più discontinua, esce dal mercato del lavoro con una pensione di vecchiaia; dall’altra l’analisi dei dati dell’INPS – Istituto Nazionale Previdenza Sociale - e dell’INPDAP - Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell'Amministrazione Pubblica - rivela che la pensione media mensile di vecchiaia percepita dalle donne sia pari al 52%. Andare in pensione prima significa avere una minore anzianità contributiva, che va ad incidere su un reddito già mediamente più basso rispetto ai colleghi maschi, a causa di una vita lavorativa più corta e stipendi inferiori. E spesso l’uscita anticipata della donna dal mercato del lavoro non risponde a un’esigenza di compensare la discriminazione e il doppio lavoro ma alla necessità di avere persone disponibili a realizzare il lavoro di cura e assistenza dei bambini e degli anziani, insomma tutto ciò che i servizi pubblici di Welfare non coprono. Si propone quindi di utilizzare il risparmio nell’erogazione delle pensioni e le maggiori entrate contributive che si determinerebbero, per servizi di child care e assistenza agli anziani. Dalle stime realizzate, nel primo anno di innalzamento dell’età pensionabile, le casse dello Stato risparmierebbero circa 468 milioni di euro per mancata erogazione delle pensioni e circa 213 milioni di euro per i contributi previdenziali versati dalle dipendenti che continuerebbero a lavorare. Nel secondo anno queste cifre ascenderebbero rispettivamente a 935 e 425 milioni di euro (dati tratti dai materiali del Convegno Plurale Femminile. Proteggere di meno, includere di più organizzato dai Radicali Italiani). Secondo questo punto di vista, nel panorama italiano, in cui il tasso di occupazione femminile è bloccato al 46,7% (penultimo in Europa), il differenziale retributivo di genere è del 23% e, malgrado gli ottimi risultati scolastici, in media migliori rispetto agli uomini, le donne hanno difficoltà a raggiungere ruoli direttivi, sarebbe meglio equiparare l’età della pensione, investire il risparmio su politiche che incentivino i salari e le opportunità di carriera, aumentare i servizi di welfare e dare riconoscimento al lavoro di cura.
I contrari
L’area Rifondazione-Sinistra democratica e la CGIL la cui Segretaria Confederale Morena Piccinini ha sottolineato come sia “singolare che venga interpretata come discriminatoria una norma che è stata pensata e voluta proprio per agevolare le donne, offrendo loro un’opportunità in più, quella di scegliere se continuare o meno a lavorare”. Infatti la legge sulla parità di trattamento del 1977 ha stabilito che le donne possono, se vogliono, continuare a lavorare fino agli stessi limiti di età fissati per gli uomini anche se hanno già raggiunto i requisiti necessari per accedere alla pensione di vecchiaia; quelle che lavorano in una amministrazione pubblica, inoltre, hanno la facoltà, in base a quanto stabilito nel decreto legislativo 503 del 1992, di continuare a lavorare fino a 67 anni.
La Riforma Maroni del 2004 (legge 243), è intervenuta sul tema e ha decretato un’età pensionabile fissa di 60 anni per le donne, 65 per gli uomini, modificando completamente la Riforma Dini del 1995 che introduceva la possibilità del pensionamento flessibile con età 57 – 65 anni, per uomini e donne. E’ evidente che a fronte di un sistema di calcolo della pensione che si basa sui contributi versati, come quello attuale, l’essere costrette ad andare in pensione prima introduce un forte elemento di discriminazione. Ma, come afferma la Piccinini, “la flessibilità in uscita è l’unico strumento valido per coniugare una reale parità di trattamento tra uomo e donna con l’esercizio delle opportunità individuali e della libera scelta ed è anche l’unico strumento che permette un vero innalzamento delle età medie di pensionamento”.
L’altra preoccupazione di chi è contrario all’equiparazione dell’età pensionabile è che le risorse aggiuntive che si verrebbero a creare per il risparmio nell’erogazione delle pensioni e le maggiori entrate contributive che si determinerebbero non vengano poi realmente utilizzate per le donne come è già accaduto nel 1992. C’è poi il timore che la sentenza venga usata come alibi per riformare l’intero sistema pensionistico alzando ulteriormente il momento di uscita dal mercato del lavoro.
Ma cosa è utile davvero per le donne?
Innanzitutto che si smetta di utilizzare le donne e il loro lavoro come una bandiera da alzare a seconda del vento. E’ già abbastanza triste e rivelatore che il nostro paese abbia il penultimo tasso di occupazione in Europa (ci supera solo Malta); che i salari delle donne siano pari a tre quarti di quelli dei loro colleghi maschi; che nelle aziende quotate in borsa, escluse banche e assicurazioni, nel 63,1 per cento dei casi non figura alcuna donna nel Consiglio di Amministrazione (CdA); che nelle banche, il 72,2 per cento dei CdA non conta neanche una donna tra i loro componenti; che nelle assicurazioni, anche se il 45 per cento del personale è costituito da donne, tra i dirigenti siano solo l’11%; che il 77,7% del lavoro familiare prodotto dalla coppia sia realizzato dalle donne; che il 98,5% del Parlamento italiano sia composto da uomini. Dati che ormai conosciamo troppo bene e che ci dicono chiaramente del totale disinteresse da parte di chi ci governa (e di chi ci ha governato) nei confronti della questione femminile. Sarà lo scoramento che accompagna questo inizio di 2009 ma, sia le proposte e le promesse di investimenti sulle politiche per l’occupazione e per il welfare di sostegno alle donne, che i suggerimenti e i calcoli di chi ormai si attacca ai cavilli per cercare di rimediare ad una situazione oggettivamente irrimediabile, sembrano inadeguati. Alle donne non serve né l’inseguimento morboso della perfetta parità né tentazioni di scambio tra il proprio tempo e i servizi sociali. Fino a quando non si riconoscerà il valore sociale della maternità e del lavoro di cura, l’enorme mole di relazioni, di piccoli e gradi gesti di amore, che comportano però dispendio di tempo, concentrazione, fatica, impegno, abilità, ingegnosità, affidabilità, sarà perfettamente inutile sedersi a parlare di numeri.
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