Cosa sognano i giovani e le giovani del Paese? E cosa criticano? Dopo la morte di Giulio Regeni sono in prima fila ad esprimere paura, ma anche coraggio e speranza per quel futuro che troppe volte si sono visti negare
Il Cairo. Nonostante le tante parole scritte e le tante parole dette in questi giorni non possiamo dimenticare i ragazzi e le ragazze egiziani che continuano a battersi per riappropriarsi di quei diritti negati da questo governo ed i governi precedenti.
Mohamed è uno di loro. Insieme ai suoi amici ha partecipato alla manifestazione organizzata sabato scorso davanti all’ambasciata italiana a Il Cairo. Insieme ai suoi amici Mohamed ha lasciato un fascio di fiori per ricordare Giulio e quelli che come lui sono stati uccisi dalla violenza intrinseca che appartiene alla storia dei governi egiziani degli ultimi tre decenni, esercitando il loro potere con il controllo e la repressione di chi viene avvertito come un nemico.
“La morte di Giulio mi ha distrutto. Non è possibile continuare a vedere morire innocenti per mano di questo o quel regime che reprime con la violenza qualsiasi voce di dissenso” dice Mohamed. “Pensavamo che la Rivoluzione portasse un vento nuovo. Ma così non è stato. Anzi, se prima conoscevamo i nostri nemici, ora non sappiamo chi abbiamo accanto, mentre stiamo seduti sulla metro o sul minibus. Abbiamo paura di parlare e di esprimere qualsiasi idea che possa essere intesa come sovversiva. Basta veramente poco per ritrovarsi sotto interrogatorio a causa di una battuta e venire condannato” confida Mohamed.
Uno stato di terrore che esiste da decenni e che fa vittime ogni giorno, negando e spezzando sul nascere le richieste e le proposte di cambiamento e rinnovamento, quando uccide più di 1300 persone nel giro di due anni. Quando incarcera con processi farsa gli attivisti e le attiviste, i giornalisti e le giornaliste, gli operatori e le operatrici dei diritti umani, i ricercatori e le ricercatrici. E quando fa scomparire nel nulla cinquecento egiziani ed egiziane solo perché accusati di remare contro l’operato del governo in carica. “Viviamo in questo modo da molto tempo. A volte noi egiziani facciamo finta che non sia così, ma non possiamo negare la realtà. E nessun egiziano lo fa. Ma dopo il 2011 continuiamo ancora a domandarci come possiamo cambiare il corso della nostra storia” continua Mohamed, mentre un velo di tristezza adombra il suo sguardo.
“E’ come se il mondo si sia accorto della realtà delle cose solo con la morte di Giulio, un ragazzo straniero. Ma ricordiamoci che Giulio e tutti gli altri sono morti per la libertà. Quella stessa libertà che ha alimentato centinaia di migliaia di egiziani e di egiziane che sono scesi per le strade di tutto il Paese cinque anni fa. A questo punto non possiamo permettere che le loro morti finiscano nel dimenticatoio, risultando vane” dice Mohamed con il tono risoluto di chi sa che l’Egitto e la sua gente si merita ben altro.
E non è difficile capire quello che Mohamed ed i suoi coetanei vogliono. Vogliono vivere nel segno della libertà in ogni sua sfaccettatura. Vogliono costruire la loro democrazia. Vogliono esprimere la loro idea senza la paura di essere presi per strada dalla polizia. “C’è chi dice che siamo una generazione persa. Che non sappiamo da che parte cominciare. C’è chi dice che non sappiamo cosa voglia dire la parola democrazia. Io dico che tutto questo è vero, ma è anche vero che non abbiamo mai smesso di combattere per il nostro futuro. Dateci il tempo di costruire una nuova storia egiziana che si lasci alle spalle la violenza, il terrore e purtroppo le sue vittime. Aiutateci e non lasciateci soli a combattere contro questo autoritarismo” conclude Mohamed che si allontana, stringendo fortemente tra le mani una piccola bandiera italiana ed egiziana.
Foto di Ahdaf Soueif: scorcio di una parte di murales in Via Via Mohamed Mahoud, vicino Piazza Tahrir in fase di demolizione a partire da settembre 2015. La strada divenne l'epicentro degli scontri violenti tra i manifestanti e la polizia durante la Rivoluzione. La via ed il muro che costeggia l'Università americana si sono poi trasformati nel simbolo della stessa Rivoluzione grazie ai graffiti disegnati, trasformando l'intera cinta muraria in una bacheca enorme in ricordo anche delle vittime.
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