Erano trascorsi solo pochi giorni dall’inaugurazione a Polla (Sa) dello sportello DIANA (Donne in ascolto nonchè aiuto), un punto di primo approccio per le vittime di violenza di genere prediposto dal comitato Se non ora quando-Vallo di Diano, che subito è arrivato per me un altro importante appuntamento quale la manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne, tenutasi sabato scorso a Roma. Passare dall’avvio di un servizio di consulenza gratuita per le donne abusate alla condivisione del percorso che ha portato a questa mobilitazione generale mi è stato particolarmente agevole, come per le amiche del comitato Snoq, da anni impegnate a divulgare soprattutto nelle scuole una maggiore e migliore consapevolezza sui temi della violenza sessista. Un fenomeno che, come per il resto d’Italia, si connota nella sua ordinaria drammaticità quale il frutto di una cultura che non riconosce alle donne la libera determinazione della loro esistenza.
Donne che, proprio quando vanno a rivendicare per sé il diritto di essere rispettate come persone capaci di scegliere da sole in amore, nella società, nella vita, vanno a scontrarsi costantemente contro un particolare muro di gomma. Quello della subordinazione ad un padre, ad un marito, ad un partner che vorrebbe considerarle come oggetti su cui imprimere il proprio marchio di proprietà, al fine di denegare la loro facoltà di scelta. Come altro potrebbe definirsi il femminicidio, se non il porre fine alla vita di una donna che in piena consapevolezza decide di dire basta ad una vita fatta di abusi e violenze continue da parte del suo compagno? Bene ribadisce Michela Murgia, quando rimarca che “Sono femminicidi le donne uccise perché si rifiutavano di comportarsi secondo le aspettative che gli uomini hanno delle donne. Dire omicidio ci dice solo che qualcuno è morto. Dire femminicidio ci dice anche il perché”.
Contro un tale genere di cultura, ben consolidato nel tempo e altrettanto radicato nel contesto sociale attuale, l’approccio istituzionale si è connotato in questi ultimi anni quale a carattere emergenziale. Quasi che la violenza contro le donne fosse un evento straordinario e che come tale dovesse essere affrontato, facendone conseguire il suo carattere personale e collegandolo con le vicende private delle singole vittime. Invece l’approccio corretto sarebbe quello di considerare la violenza sessista per quello che è nella realtà, ossia un accadimento a carattere pubblico perchè frutto di una cultura fortemente penalizzante per le donne. Una cultura che purtroppo declina la violenza nei vari ambiti della loro vita: dalle aule scolastiche in cui aleggiano i forti venti degli stereotipi sessisti, ai luoghi di lavoro connnotati da paghe sottostimate, alle corsie d’ospedale pullulanti di medici obiettori della legge 194, ai palazzi di giustizia in cui una donna violentata entra da vittima ed esce da colpevole di quanto le è accaduto. Solo per citare esemplificativamente alcuni dei luoghi fortemente permeati di un sentire comune caratterizzato dall’idea che alcune vite contino di meno delle altre.
Sabato scorso a Roma le varie associazioni femministe e femminili italiane, le donne individualmente, gli uomini presenti in corteo gridavano congiuntamente: Non una di meno. Non solo per essere “l’urlo di quelle che non hanno più voce”, come ben scandiva uno slogan, ma per fare risuonare idealmente anche le grida di chi subisce quotidianamente le varie violenze connotanti il nostro attuale consesso sociale. Era dagli anni ‘70 che non si assisteva ad un’iniziativa di tale portata, che oggi è tipicamente caratterizzata da una consapevolezza nuova, quale la necessità di impegnarsi a predisporre un’agenda politica delle donne quanto più possibile condivisa, da sottoporre al vaglio delle istituzioni competenti. Un doveroso ed oneroso progetto, che nasce dalla concordata presa d’atto che le donne italiane siano titolate a fare proposte sulle possibili soluzioni ai problemi riguardanti la loro esistenza, nel rispetto dei ruoli reciprocamente riconosciutisi. Non per affossarsi nella recriminazione di quanto non messo in campo dai governi passati o presente, ma per gettare le basi di un confronto puntuale con i rappresentanti istituzionali, foriero di maggiori e migliori risultati in tema di contrasto alla violenza maschile sulle donne.
Alle organizzatrici della manifestazione nazionale di sabato scorso, la Rete Io decido, l’Udi e Dire, da qualche giornalista è stato chiesto se tale iniziativa si configurasse come la nascita di un nuovo soggetto politico. Le risposte non sono state nette al riguardo, perchè è evidente che nascerà qualcosa di proficuo per le donne italiane solo se il lavoro messo in campo dal giorno successivo alla manifestazione nazionale, come anche dalla fase ad essa preliminare, sia foriero di risultati positivi. Potrebbe conseguentemente configurarsi una soggettività politica nuova, qualificata dalla capacità di lavorare insieme per temi, individuando le proposte da avanzare, in una sorta di confronto politico continuo e puntuale con quanti sono istituzionalmente preposti a scegliere le soluzioni più idonee alle istanze promananti dalle varie espressioni del femminismo italiano. Confronto che porti alla predisposizione di un «PIANO D’AZIONE NAZIONALE femminista che sia utile ed efficace – si legge nel comunicato finale –, quando sarà pronto chiederemo con tutte le nostre forze che venga adottato».
Non una di meno vorrebbe avere questa alta ambizione, ossia tentare di fare condividere alle sue aderenti un percorso fatto di un lavoro collettivo capace di mediare tra le singole posizioni ideali, sia associate che individuali. Il cammino è tracciato, tant’è che alla conclusione della seconda giornata di mobilitazione, connotata dall’avvio di ben otto tavoli tematici, si è deciso di proporre un secondo appuntamento nazionale per gli inizi di febbraio (il 4 e 5 febbraio, a Bologna) che sia preliminare allo Sciopero globale delle donne previsto per il prossimo Otto marzo. La volontà c’è la determinazione anche, come pure la tenacia nel volersi ritagliare una legittimazione come interlocutrici delle isituzioni nella predisposizione di proposte che vadano nella direzione di venire incontro alle esigenze, bisogni e speranze delle donne. Il 26 novembre hanno sfilato femministe giovani e d’età, come a volere sfatare quel luogo comune che vorrebbe le vecchie femministe incapaci di tessere relazioni con quelle giovani impegnate in prima linea.
Il lavoro precedente alla manifestazione nazionale di Roma contro la violenza maschile sulle donne, iniziatosi sin dal giugno scorso ed implementato da quanto si sarà in grado di predisporre nel prosieguo del primo appuntamento nazionale del 27 novembre scorso, è confortante. Non fosse altro che perchè si sono superati quegli innumerevoli ostacoli che costantemente si frapponevano alla sua buona riuscita. L’imperativo categorico è andare avanti, non solo sull’onda delle emozioni che hanno portato a scendere in corteo migliaia e migliaia di donne, ma nella consapevolezza che sia un percorso obbligato per rendere il Paese a misura di donna.
Personalmente ci credo con l’ottimismo della ragione e del cuore e, come per lo sportello d’ascolto per le donne abusate inaugurato solo otto giorni fa in un piccolo paese del Sud dopo anni di impegno sul contrasto alla violenza di genere, mi adopererò a dare il mio contributo personale a Non una di meno. Dal locale, al nazionale, pienamente cosciente del senso insito in uno slogan scandito a viva voce dalle manifestanti di sabato scorso, “Donna lo sai la forza che hai? Sì lo so la forza che ho”.
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