Agnes Heller - Una riflessione segnata dalla profonda diffidenza verso ogni forma di assunto dogmatico, un’utopia razionale che vuole aprirsi al futuro e accettare la modernità
Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2008
Alla fine degli anni ‘60, Agnes Heller inizia a frequentare la scuola di György Lukács. Tuttavia, né lei né i suoi colleghi sono impegnati nel movimento di rinnovamento del marxismo, che si propone il ritorno alle radici di Karl Marx. Piuttosto, ella aderisce ad un progetto di socialismo democratico e pluralista, contro “la dittatura sui bisogni” tipica del socialismo realizzato.
Già nel suo libro “Sociologia della vita quotidiana” (Editori Riuniti, 1975), la Heller afferma che i “bisogni” sono il punto di avvio per capire le trasformazioni sociali. Successivamente, elaborerà una vera e propria teoria dei bisogni, allontanandosi sempre più dalla linea lukácsiana che, muovendo dal pensiero di Marx, analizza il nesso tra bisogni e valori. La filosofa, infatti, non partirà più dalla stratificazione sociale, poiché “i bisogni umani non possono essere stratificati”. In contrasto con la tradizione filosofica moderna, che ha origine in Kant, secondo cui i bisogni sono quantificabili, la Heller sostiene che i bisogni dell’uomo possono essere divisi in due categorie. Da una parte vi sono i bisogni alienanti, che riguardano il possesso di beni, soldi e potere. Essi hanno una natura quantitativa, che non lascia mai appagati. Dall’altra vi sono i bisogni che attengono alla più intima radice dell’uomo. E, per questo motivo, la Heller li chiama bisogni “radicali”. Essi riguardano l’introspezione, l’amicizia, l’amore, la convivialità ed il gioco. La loro natura non è quantitativa ma qualitativa: ciò che conta è la loro profondità, non la loro estensione.
Crede anche in una filosofia “radicale”, cioè in una forma di politica che si ammanta di un abito filosofico: “per principio, ogni filosofia è radicale. Lo è perché opponendosi al pensiero ordinario, ci indica che quanto crediamo vero non lo è affatto, e ciò che riteniamo giusto è solo un’opinione” (A. Heller. “La filosofia radicale”, Il Saggiatore, 1979), e non ritiene più che il presente sia un breve passaggio di un secolo indirizzato verso una sorta di paradiso: “Qui viviamo, qui moriremo”. Da qui la necessità di elaborare una teoria che formuli, innanzitutto, la necessità di trasformare le forme della vita quotidiana.
La sua generazione aveva creduto nella possibilità di realizzare l’Utopia dopo periodi di transizione e conflitto. Aveva avuto la certezza di poter realizzare il paradiso in terra. Tuttavia, per la filosofa, è giunto il momento, nella società dell’oggi, di abbandonare ogni finalismo e di riscrivere una filosofia che inizi da noi stessi. A partire dall’interrogazione di quei bisogni indotti da un capitalismo, che non è in grado di soddisfare. Dopo il movimento del ’68, afferma la Heller, “si è inaugurato un nuovo modo di guardare alla modernità. Le grandi narrazioni sono finite. Ed è difficile riuscire a guardare al di là del proprio orizzonte personale e del proprio presente”. Certo, si possono avere delle intuizioni sul futuro costruite sul presente. L’esempio lampante, dice la filosofa, è Marx: “le sue previsioni basate sull’osservazione del presente si sono dimostrate esatte: la globalizzazione, la crisi di accumulazione del capitale. Ma quando parla delle forme future di società, dice delle sciocchezze”.
La filosofia deve servire alla comprensione del presente: questa certezza, che le è stata trasmessa da Lukács, con cui ha collaborato a lungo, è l’unica alla quale la Heller ha sempre aderito senza riserve. Per il resto, la sua è una riflessione segnata dalla profonda diffidenza verso ogni forma di assunto dogmatico. La filosofa difende il ruolo demitizzante della filosofia, che contrappone “all'ambiguità immaginosa della mitologia l’univocità dell’argomentazione razionale”. Seguendo quest’idea della filosofia, ella abbandona la rivendicazione di un accesso privilegiato alla verità; e con questo a ogni aspettativa messianica. Non per accettare il presente ma per aprirsi al futuro perché, arguisce, “ogni messia è un falso messia, che chiude l’orizzonte delle possibilità future”. In “Oltre la giustizia” (il Mulino, 1990), la Heller sostiene, poi, che una società totalmente giusta, al di là della questione della sua realizzazione, non è auspicabile, perché in una società simile nessuno potrebbe più dire “questo è ingiusto”, il che ovviamente non è augurabile. Si tratterebbe di una società non dinamica, senza pluralismo delle opinioni, scontri e politica: “È questo il mondo che vogliamo? Un mondo senza conflitti, un paradiso, un giardino dell’Eden? Non penso che vorremmo vivere in un posto simile, dunque, non credo che una società totalmente giusta sia auspicabile”. Una trasformazione antropologica così com’è stata sognata da Kant e dallo stesso Marx parte dall’idea che ci sarà un tempo in cui ogni singola persona diventerà assolutamente buona e giusta e, dimenticando il limite della sua natura, finirà con l’assomigliare a Cristo. La Heller dubita che ciò possa essere una prospettiva vivibile e desiderabile: “Se in tutta la storia del genere umano l’essenza umana è rimasta così com’è, perché dovrebbe improvvisamente cambiare durante la nostra particolare contingenza storica? Qual è il nostro privilegio? Chi e come ce lo avrebbe concesso? Sono domande che dobbiamo porci”.
Per la filosofa qualunque politica redentiva è incompatibile con la condizione postmoderna. Ciò non significa accettare l’esistente come inalterabile. C’è spazio per creare quella che la Heller definisce “un’utopia razionale”, a patto però di accettare la modernità: “Non penso affatto che l’esistente sia indispensabile così com’è, ma riconosco che alcune cose sono necessarie: il libero mercato, la libertà di creare istituzioni politiche e l’accumulo di conoscenza scientifica e tecnologica”. Nessuno di questi tre elementi può essere omesso perché una società sia effettivamente moderna. Questa società deve, inoltre, poggiare su una democrazia di tipo rappresentativo (questo è un punto di discontinuità con il pensiero della Arendt, a cui la Heller fa spesso riferimento, dato che la filosofa tedesca predilige, invece, una democrazia di tipo diretto). All'interno di questo orizzonte sono ancora possibili rivoluzioni e transizioni: le rivoluzioni politiche sono frutto della stessa modernità, che ha inventato sempre nuove forme politiche. Dunque, si può ancora agire, ma l’impossibile rimane impossibile. L’Olocausto e il regime totalitario sono eventi che hanno influenzato la sua ricerca filosofica. Afferma la filosofa: “Negli anni ’40, in Ungheria, sono passata dall’Olocausto ad un regime totalitario. La mia ricerca da quel momento è stata dedicata a comprendere quegli eventi dal punto di vista morale. Il totalitarismo sono riuscita a capirlo, l’Olocausto no. Come un essere umano possa fare qualcosa del genere ai suoi simili, rimane per me un mistero. La mia ricerca è sempre stata in due direzioni. Quella morale, o antropologica, per capire la radice del bene e del male, e quella sociale, o storica, che si chiede: che tipo di mondo è quello in cui si possono sviluppare un regime totalitario, o una forma sistematica di annientamento di altri esseri umani? La mia risposta è che questi due fenomeni non sono emersi da alcuna necessità storica. Entrambi sono in parte il risultato del ‘peccato originale’ della prima guerra mondiale, anche se non ne conseguono necessariamente. Ho, però, concluso che il totalitarismo è una forma di governo moderna, è un fenomeno della modernità”. Scrive nel 1995 Agnes Heller: “Si può scrivere una storia del totalitarismo nazista ma non una storia dell’Olocausto. Il totalitarismo è emerso dalla modernità e Auschwitz ne è stata la metafora sopra-storica…L’Olocausto è l’insensatezza assoluta che non può essere integrata nella storia”. Si sente qui l’influsso del pensiero politico arendtiano. Nel celebre libro di Hannah Arendt “Le origini del totalitarismo” (1951), sono, infatti, contestate le teorie liberali che tendono a vedere nei sistemi totalitari il riaffiorare di inclinazioni arcaiche di natura fondamentalmente irrazionale. Al contrario, viene mostrato come l’essenza di questi sistemi possa essere colta solo attraverso un’analisi critica della genealogia della modernità. Ella, infine, non coglie, alcuna differenza fra totalitarismi secolari e religiosi. Entrambi, sostiene, sono il risultato di una fondamentale perdita di credo. Di quella che Sartre chiama “caduta nella libertà, ovvero nel nulla”. Ed entrambi sono una reazione patologica alla modernità.
Breve profilo di Agnes Heller
Filosofa ebrea ungherese, nata nel 1929, Agnes Heller è uno dei più autorevoli interpreti della complessità filosofica e storica della modernità. Sfuggita adolescente alle deportazioni naziste, diviene allieva del filosofo György Lukács, e ne condivide i tormentati rapporti con il partito comunista successivi alla rivolta del ‘56. Durante il regime di Kádár, la Heller viene progressivamente privata della possibilità d’insegnare, di viaggiare all’estero e di pubblicare i suoi libri. Le vicende della “Scuola di Budapest” (composta anche, tra gli altri, da Mihály Vajda e György Márkus) vengono rese note all’opinione pubblica occidentale dalla lettera di Lukács al “Times Literary Supplement” del 1973. Nel ’77 la Heller lascia l’Ungheria per l’Australia, e quindi per New York, dove ricopre tutt’ora la cattedra di filosofia, intitolata ad Hannah Arendt, presso la New School for Social Research. A seguito della caduta del Muro, la Heller ha fatto ritorno in Ungheria, pur non rinunciando al suo insegnamento in America.
Lascia un Commento