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La figlia del vigilante, il racconto di Matilde Tortora

La figlia del vigilante, il racconto di Matilde Tortora

" Avevamo poco più di dieci anni, frequentavamo la prima media, eravamo ancora bambine, ma..."

Lunedi, 21/06/2021 - La figlia del vigilante, il racconto di Matilde Tortora

La domenica o qualche altro giorno festivo, fosse anche il martedì ultimo di carnevale, a volte andavo a casa della figlia del vigilante.

Era mia compagna a scuola, mi invitava ad andare da lei a pranzo. Io ci andavo volentieri, accettavo con evidente entusiasmo il suo invito e per giorni mi tornava in mente la parola vigilante come una biglia e cercavo di carpirne, rotolandola tra me e me, ogni significato.

Credo di essere stata la prima, forse l’unica ad accettare l’invito ad andarvi più che dalla compagna, da quella parola vigilante che mi attraeva e mi incuriosiva tanto.

Noi convittrici spingendoci durante le passeggiate fino al Giro del Ponte, a volte, scorgevamo fazzoletti bianchi come dei puntolini che i detenuti lassù dalla Rocca sventolavano per noi.

Quel che riuscivamo a vedere erano le grate con le sbarre e quei puntolini bianchi a volte perfino distinguibili come fazzoletti agitati per salutarci dai detenuti, o forse solo per divagarsi un poco o volere dirci che stavano là, che essi c’erano.

Avevamo poco più di dieci anni, frequentavamo la prima media, eravamo ancora bambine, ma sapevamo che dietro quelle alte, strane finestre, dietro le sbarre c’erano dei detenuti,

Quel loro salutarci ci incuriosiva, ricambiavamo agitando le mani, ma anche ci inquietava, avremmo preferito che non ci salutassero ogni volta in quella bianca, esangue maniera. Che non ci salutassero quando ci vedevano passare.

A volte pure facevamo finta di non vedere quei fazzoletti che essi agitavano destinandoli a noi.

La mamma della mia compagna era una brava cuoca, preparava dei pranzetti buonissimi anche se non era il martedì di carnevale ma una domenica qualsiasi d’inverno.

Il padre della mia compagna non c’era sempre a pranzo.

Sembrava assodato che egli a volte non ci fosse.

Dipende dai turni che ha da fare - disse una volta la mia compagna.

Io pensai facesse il ferroviere oppure i turni di guardia alle miniere a Morgnano. Quando era presente, mi piaceva ci fosse. Era un uomo di poche parole, a volte faceva il bis di qualche porzione a volte mi chiedeva se ne volessi ancora anch’io, soprattutto del dolce.

Fu solo molto tempo dopo che seppi che quell’uomo aveva a che fare in un certo qual modo con quegli esangui fazzoletti che scorgevamo sventolati da lassù, dalle finestre con le sbarre della Rocca.

Fu una intuizione che all’improvviso ebbi, fu come lo spalancarsi improvviso di una porta che pure io avevo da tanto cercato di aprire per scorgere cosa fosse celato dentro.

E seppi che ero stata più di una volta ospite a casa di un vigilante alle carceri.

Qualcosa si ricompose in me. Quel giorno avevo fatto un passo in più a divenire grande, il disvelamento di quella parola, anche se tardivo, mi aveva fatto addirittura crescere in altezza così mi sembrò e, quando ancora si andava alle passeggiate al Giro del Ponte e scorgevamo quei fazzoletti bianchi sventolati dai detenuti, seppi che non erano affatto esangui. Come avessi potuto toccarli quei fazzoletti, ne avessi potuto sentire il tepore, avendoli incontrati da vicino per interposta persona.

E lo seppi perché a volte ero stata invitata a casa sua dalla mia compagna di scuola, la figlia del vigilante.

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