Le violenze di Manduria e di Viterbo raccontano l'assenza delle famiglie, la responsabilità degli adulti. Anche quelli 'limitrofi', che non vedono o non vogliono vedere
Giovedi, 02/05/2019 - Niente rende fragile la vita, guardata dall’angolazione inedita della genitorialità, quanto essere madri o padri. Eppure, allo stesso tempo, nulla come essere madre o padre dovrebbe rendere più forti. Coraggio, saldezza, resistenza e allo stesso tempo resilienza, adattamento, pazienza dovrebbero essere gli strumenti nella cassetta degli attrezzi di chi è genitrice, genitore.
A leggere le parole degli adulti di riferimento, riportate dalla stampa, nei due ultimi casi di ferinità di Manduria e Viterbo, ma in generale a osservare il mondo adulto dell’educazione, della scuola e della famiglia negli ultimi decenni si direbbe che di quella cassetta non ci sia nemmeno il contenitore.
C’è silenzio, e di conseguenza c’è omertà; c’è la difesa ottusa dell’indifendibile e c’è l’accusa, questa sì, ma dell’altrove. Il male è fuori, mai dentro di noi, mai quindi nelle azioni di chi diciamo di amare. La violenza la fa sempre qualcun’altro, mio figlio, no, non può essere.
I responsabili, diretti e indiretti, delle angherie dei figli, i nostri, sono la crisi, la mancanza di lavoro, l’assenza di luoghi di ritrovo e di cultura: certo, come negare che tutto questo concorra a strutturare e dare alimento alla ‘noia’ che converge, dentro i racconti balbettanti degli adulti, a trasformare dei bravi ragazzi in aguzzini, seviziatori, stupratori?
Sappiamo però molto bene che i (nostri) ragazzini, i (nostri) giovani uomini non si trasformano in aguzzini, seviziatori, stupratori in un attimo, come supereroi al contrario. Una cabina telefonica, via la maglietta, ed ecco il mostro. C’è un percorso, nel tempo, che srotola la matassa degli anni, nel quale pare che il mondo adulto si ritragga, impotente, sotto i colpi prima dell’adolescenza e poi della (presunta) maggiore età, accanto alla fatica, per molte famiglia, di arrivare alla fine del mese. Possibile che le motivazioni del fallimento educativo risiedano sempre lontano dalla nostra responsabilità, individuale e collettiva? Pare di sì.
Mi aveva molto turbata, qualche anno fa, osservare l’impotenza imbelle di madri e padri, giovani e meno giovani, di ogni ceto e cultura, raccontata dalla trasmissione La tata, (terminata nel 2013): chiamare una esperta che arriva a casa tua, con le telecamere, per insegnarti come educare i tuoi pargoli sotto gli undici anni? È accaduto anche questo. Oggi la tata è obsoleta, ma la rimpiango, perché almeno era una presenza in carne ed ossa ad ammannire ovvietà a genitori adulti in perenne crisi (adolescenziale). Oggi la tata è sostituita dalle applicazioni sul cellulare e amen. Quel cellulare che si regala ai figli e alle figlie, spesso prima che le gioie dei nostri occhi vadano alle elementari: un totem assoluto con il quale ci illudiamo di sapere dove sono e cosa fanno i nostri gioielli, mentre magari filmano e postano video ‘divertenti’ nei quali si picchiano i disabili, si stuprano le donne. Un totem che offre, in aggiunta alla disconnessione con i corpi e le loro stesse azioni, la delirante presunzione di onnipotente impunità: come è possibile che i giovani stupratori di Viterbo continuino a millantare il rapporto sessuale consenziente, a fronte delle eloquenti immagini nelle quali si sono minuziosamente e tronfiamente ritratti?
Le cronache oggi, grazie alla denuncia di una ragazzina, dicono che a Manduria i video ‘divertenti’ delle sevizie del branco minorenne erano noti ad alcuni familiari e ad adulti a scuola.
Ecco: è dentro a questa connivenza, sottovalutazione, cecità dei maggiori che si rintracciano e si generano l’impunità, la ferinità, l’inconsapevolezza dei giovani, siano essi annoiati adolescenti o esaltati neofascisti.
Dove, come e perché si è rotto il legame con i figli? Dove, come e perché, se il nucleo originario fallisce, la collettività limitrofa scompare, è sorda cieca e muta, quindi complice? Non è questa forse la base culturale della mafia? La violenza la si ferma se la si riconosce, quando la si incontra, ma per far questo ci deve essere chi ci indica e insegna possibilità e limiti, diritti e doveri. Il primo antidoto contro la violenza è l’educazione al rispetto e alla nonviolenza, ma quanto questo oggi davvero conta?
Chiaramente esiste la responsabilità individuale di chi ha agito nelle vicende atroci di Viterbo e Manduria: ma ciò che rende evidente il baratro collettivo, che non riguarda più solo le famiglie coinvolte, è l’inconsapevolezza da parte del mondo adulto che quei figli sono il presente, e il futuro, dei figli e delle figlie di tutti.
Li definiamo ‘nostri’, i figli e le figlie che partoriamo, ma è evidente che sono destinati a convivere con quelli e quelle partoriti ed educati da altri.
Il legame affettivo, ed educativo, che abbiamo con i nostri figli e figlie è il primo e fondamentale tassello con il quale diamo forma alla convivenza civile collettiva. Abbiamo, in quanto adulti, tutti e tutte la responsabilità di come mandiamo nel mondo i giovani e della cultura che trasmettiamo, soprattutto in tema di rispetto nelle relazioni umane e sessuali.
Se non riconosciamo questa profonda connessione, o la neghiamo incolpando l’altrove quando ci troviamo di fronte alle tragedie, stiamo mentendo.
La prima tragedia è il silenzio nelle famiglie, e la narrazione retorica di un luogo sacro degli affetti quando questo è in buona parte iconografia senza spessore: se, come accade nella realtà, i ragazzini imparano la sessualità dal porno on line, e gli adulti voltano lo sguardo; se le loro fonti principali di informazione, formazione, e intrattenimento sono siti conosciuti su instagram o youtube non c’è poi da stupirsi se la maturità psicologica e la capacità di provare e governare le emozioni, quando si tratta di scegliere tra il bene e il male, è a rischio.
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