Diario di viaggio - A conclusione del suo giro del mondo il nostro amico dedica i suoi pensieri ad un continente visto al femminile
Stefano Spaggiari Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2006
Ho viaggiato attraverso cinque continenti, ho percorso più di 96.000 Km sulle strade di oltre cinquanta paesi diversi, ho percorso i tre Oceani per miglia e miglia e ora, dopo 682 giorni di viaggio, ho terminato “Il mio giro del Mondo” senza utilizzare aeroplani.
Forse molte persone mi ricorderanno per l’importanza di questi dati, altri per lo spirito di avventura, altri ancora per le tante foto e le pagine di diario che ancora sono sul mio sito internet www.myjourneyaroundtheworld.com . In realtà il mio viaggio è stato soprattutto un incredibile bagno fra genti e popoli diversi, attraverso la loro quotidianità, ed è proprio di questo che mi piace parlare, perché, insieme a tante cose belle e brutte che ho visto, mi ha fatto provare le emozioni più forti. In modo particolare vorrei parlarvi dell’Africa, l’ultimo continente che ho visitato percorrendolo per quattro bellissimi mesi da Nord a Sud, un viaggio di una intensità unica, che mi ha permesso di osservare continuamente le donne africane. Io vi voglio raccontare di loro come le ho viste, ogni giorno, dall’alba al tramonto, come il cielo di cui anche in Africa rappresentano la metà. Non voglio fare distinzione di paesi, costituire pregiudizi o formulare sentenze, vorrei solo dare voce alle tante emozioni che ho provato con i miei occhi.
Senza scordare la povertà che quasi sempre avvolge il mio cammino, vorrei parlare dell’infanzia femminile come una bella e onesta espressione di gioia e spensieratezza, ancora non consapevole del mondo che la circonda e l’aspetta, ma poi i miei pensieri corrono subito ad un quadro moderno (anno 2003) esposto al Museo Nazionale di Addis Abeba (Etiopia). L’autore è Abebe Zelelew, il titolo: Genital mutilation; forme geometriche dipinte a colori vivaci su una tavola di legno confondono appena la tremenda scena in cui una bambina urlante è trattenuta da una donna mentre una seconda, chinata, pratica l’operazione. Anche a scuola, se ha la fortuna di frequentarla, non riceve adeguata considerazione, almeno pensando a ciò che vidi seguendo per alcuni minuti una lezione di inglese, impartita nella scuola di un villaggio; quattro colonne di banchi, due per i maschi e due per le femmine, coperte dal velo. Due ragazzine dell’ultimo banco si distraggono guardando all’esterno e implacabile, senza alcuna distinzione, il maestro le raggiunge e con un bastone le picchia forte sulla schiena, un rumore sordo di colpi che non ha alcuna risposta. Ho visto ragazze belle, anzi bellissime, alte, dallo sguardo fiero. Una di loro, stupenda, ma con occhi gialli consumati dall’epatite, una volta, mi ha offerto il pranzo, preparato con tutto ciò che aveva di meglio.
Un’altra, commessa in un market, ha conservato per alcuni giorni il cappello e la guida turistica in inglese che avevo scordato, apparentemente oggetti di scarso valore, in realtà appetibilissimi e costosissimi se portati al mercato locale. Un’altra ancora, molto carina e curata, si è affiancata inizialmente per una conversazione leggera e piacevole e poi mi si è offerta per una prestazione sessuale: io le ho solo indicato alcune sue coetanee, altrettanto carine, ma con mani meno curate e vestiti fradici di sudore, che in quel momento, in un cantiere vicino, trasportavano a spalla sacchi pieni di pietre o spingevano pesanti carriole. A Nairobi, in autobus, parlo per alcuni minuti con una ragazza Maasai; ha la testa rasata, indossa abiti moderni con colori sgargianti e abbondanza di perline. “Mi sono appena laureata in economia “ dice orgogliosa e precisa che la sua specializzazione riguarda lo sviluppo sostenibile, la sua strada sarà quella di aiutare la propria tribù di provenienza. Lo studio e la cultura non le hanno fatto dimenticare le origini, come testimoniano i lobi delle orecchie, deformati e lunghissimi, che trattengono pesanti orecchini.
Durante i lunghi spostamenti su camion per attraversare le zone desertiche, vedo che le donne tra di loro sono sempre vicine e complici: le anziane consigliano e sono rispettate, le giovani scherzano, le mamme diventano premurose per tutti i bambini del gruppo. Raramente una bottiglia d’acqua o piccole provviste di cibo sono consumate dalla sola proprietaria. E’ bello vedere, sotto il caldo torrido, una bottiglia d’acqua che passa di mano in mano, sorseggiata in modo misurato affinché tutte, non importa il numero, ne abbiano la loro parte. Nei vari mercati che ho incontrato ho visto parecchie donne, giovani e anziane, mettere in vendita la loro merce, alcune sbracciandosi per vendere manghi o pomodori, altre aspettando in silenzio e compostamente il cliente. Ho visto donne di tutte le età lavorare curve su aridi campi o pascolare magre bestie sotto un sole cocente, le ho viste camminare barcollanti sotto secchi pieni di acqua, una tortura che a volte può durare alcuni chilometri, fino alla porta della propria casa, dove continuerà a lavorare. Ho visto tante donne in città fare i lavori più umili, perché, oltre alla differenza con l’uomo, rimane ancora una profonda differenza con la donna bianca. In Africa, il lavoro femminile non è una questione di scelta , di soddisfazione o di emancipazione personale, ma è una semplice questione di sopravvivenza.
Spesso, sulle loro spalle gravano il peso e le responsabilità del vivere quotidiano.
In un paio di occasioni ho viaggiato su navi dove l’ordine dei passeggeri era suddiviso in prima, seconda e terza classe separate tra di loro da alcuni cancelli di ferro: potete immaginare la precarietà del battello e vi posso dire quanto l’ultimo ordine di posti, il meno costoso, assomigliasse a un girone infernale dantesco, dove le persone erano stipate e quasi impossibilitate a muoversi, un incastro umano terribile, dove ancora una volta alle donne era assegnata la sistemazione più scomoda. Quelle erano ancora le immagini di una vecchia nave negriera e io ero “l’uomo bianco di prima classe”, che tutti quegli occhi smarriti guardavano con sorpresa e imbarazzo. E’ stato un grande bagno di umanità che non ho volutamente fotografato, per l’enorme rispetto e la mancanza di giustificazione: quelle immagini le porto nel cuore.
Forse non tutti sanno che il 75% delle donne africane vive in zone malariche e sono frequentemente soggette a crisi di paludismo, con conseguente distruzione dei globuli rossi.
Durante il mio peregrinare ho notato diversi cartelloni pubblicitari posti per sensibilizzare la popolazione a una giusta educazione sessuale al riparo del virus HIV, ma forse dobbiamo ricordarci che le donne in Africa, da sempre, sono le vittime più esposte a questo virus e per quanto la conoscenza dei rischi adesso sia più diffusa, esse subiscono , una volta di più, la loro scarsissima facoltà decisionale all’interno dei rapporti famigliari e di coppia.
Vi ho raccontato una parte della mia Africa (forse sarebbe giusto dire la “Vostra”), non ho volutamente fatto nomi di popoli, di paesi, città e nazioni, perché le mie riflessioni sono un sentiero trasversale che li unisce; io ho cercato di percorrerlo osservando la gente e cogliendo ciò che notavano i miei occhi e il mio cuore: ho riscoperto valori che sembravano dimenticati. Grazie anche alle donne, dalla povertà e dalla semplicità ho rivisto nascere la generosità, l’ospitalità, l’orgoglio dell’appartenenza e il piacere della comunità.
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