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La dolce Alina della nostra giovinezza

La dolce Alina della nostra giovinezza

Intervista ad Alina Marazzi - In ‘Vogliamo anche le Rose’ la stagione delle conquiste femminili

Colla Elisabetta Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2008

Nel celebre slogan ‘Vogliamo il pane, ma anche le rose’ - coniato nel 1912 da un gruppo di operaie tessili del Massachusettes, durante un lungo sciopero - è racchiuso il significato di un’intera epoca femminile e, non a caso, parte di questa assertiva affermazione è divenuta titolo dell’ultimo film documentario scritto e diretto dalla raffinata regista Alina Marazzi. Raccontare le donne degli anni Sessanta e Settanta, la difficile costruzione di un’identità collettiva, la rivoluzione sessuale, la conquista di libertà oggi date per scontate (e anzi rimesse in discussione!), non era compito facile. Già nota per ‘Un’ora sola ti vorrei’ (il bellissimo documentario dedicato alla madre morta tragicamente, da poco riproposto alla casa Internazionale delle Donne di Roma e che, in una sala gremita, ha generato un fervido dibattito sui cambiamenti della condizione femminile) e ‘Per Sempre’, dedicato alla scelta della clausura, ‘Vogliamo anche le rose’ ricostruisce la storia di un movimento (quello femminile, poi femminista) e delle sue protagoniste, in una stagione senza precedenti - ed a tutt’oggi senza confronto - all’interno di un più vasto moto epocale che segnò in modo indelebile la “nostra” storia, italiana e femminile, culminando nella battaglia per rendere legale la pratica dell’aborto. “Questo film è frutto di un percorso di ricerca e di un vasto lavoro d’archivio - afferma la regista - che ho incentrato, man mano che costruivo la struttura del film, sul tema della rivoluzione sessuale. M’interessava raccontare gli anni Sessanta e Settanta attraverso le soggettività, le storie singole delle donne nella loro quotidianità. Per farlo sono partita da due fonti istituzionali molto diverse fra loro: le Teche RAI e l’Archivio del Movimento Operaio italiano, più orientato a sinistra”. Immagini di repertorio, filmati amatoriali, fotografie e fotoromanzi, inchieste e pubblicità, si mescolano sapientemente a fonti non-ufficiali, come i diari e le riflessioni di Anita, Teresa e Valentina, tre giovani donne che testimoniano (in città diverse) stati d’animo e lotte comuni verso la famiglia, le convenzioni sociali, la politica, il sesso. Anita, adolescente nel 1964 e cresciuta in una severa famiglia borghese, vorrebbe avere le sue prime esperienze con l’altro sesso, ma è inibita e repressa dalla sua educazione. Teresa, dall’altra parte della penisola, rimane incinta a vent’anni, nel 1976, quando l’aborto è ancora illegale: decide di andare a Roma per un aborto clandestino e, da quel momento, comprende che le sue lotte non sono più solo slogan ma si calano nella realtà della vita. Valentina, militante femminista nella storica sede romana di Via del Governo Vecchio, nel 1977, vive con intensità la sua vita fra attività politiche e relazioni private. E’ lei a scrivere sul diario una frase emblematica, sul cui significato sembra voler riflettere l’intero film: “Siamo sconfitti entrambi, uomini e donne, dopo il ’77 e penso che i veri effetti saranno lenti ad insediarsi nelle nostre coscienze”. Girato con uno stile del tutto personale, con divertimento, garbo ed ironia, il film è superbamente montato da Ilaria Francioli: la rapida e colorata sequenza delle scene non annoia mai, piuttosto sottolinea e riecheggia - come un monito in un’epoca tendente all’oscurantismo – che le conquiste acquisite non si toccano e che si deve, piuttosto, andare avanti.


Intervista ad Alina Marazzi
Come eravamo, come siamo diventate


Come hai iniziato a fare la regista? L’essere donna ti ha creato problemi sul lavoro?
Dopo le superiori ho fatto una scuola di cinema e fotografia e già mi ero interessata alla regia, al documentario. Ho frequentato la scuola di cinema a Londra e lì non c’era una specializzazione, di tipo tecnico o creativo, anche se le donne tradizionalmente si perfezionano in montaggio, costumi, edizioni e suono. Lavorando nel documentario, poi, ci si trova a fare un po’ di tutto, a svolgere funzioni tecniche ed anche di aiuto-regista, un ruolo tradizionalmente maschile, ed a Roma, a Cinecittà, le maestranze tecniche sono tradizionalmente tutte maschili. In Italia sono poche le donne che si occupano di suono e fotografia o che fanno i fonici. Quando ho iniziato a girare i miei documentari, le tematiche sono state da subite relative alle donne, ho fatto un cinema sulle donne e forse questo mi ha aiutato a non avere grandi problemi, molte donne fanno documentari. Come sempre ci sono pro e contro a fare parte di una “minoranza”.

Esiste un percorso ideale, un filo rosso che lega i tuoi documentari?
Sì, esiste un legame fra i miei film, anche se non c’era un’intenzione, si è poi inevitabilmente creato. Infatti in tutti ho voluto raccontare personaggi femminili che rifiutassero di aderire a ruoli imposti o scelti da altri per loro, storie di inquietudini o ribellioni: così mia madre in ‘Un’ora sola ti vorrei’, le novizie di ‘Per Sempre’, le donne degli anni Settanta in ‘Vogliamo anche le rose’. E’ sempre presente nei miei personaggi il desiderio di cambiare i ruoli tradizionali. E questo si riflette anche sul punto di vista della poetica e del linguaggio: c’è sempre una forte intenzione narrativa, anche nel documentario, un voler mettere in relazione il modo di girare con la storia.

Vogliamo anche le rose è un film poetico, talvolta drammatico ma anche ironico verso alcuni aspetti del movimento femminista. Credi che siano importanti l’autocritica e l’ironia nella vita? Come è stato accolto dalle donne il tuo film?
L’ironia è certamente una dimensione che mi appartiene ed in parte ho anche trovato elementi ironici nei materiali che andavo scoprendo: è servita a punteggiare e stemperare il racconto nei suoi aspetti drammatici. Quello che accade, in genere, nel rivedere alcuni atteggiamenti molto ideologici e cervellotici a distanza di tempo, ci fa bene, crea un punto d’incontro ed un legame con l’oggi e nell’ironia tutto questo si svela. Per quanto riguarda l’uscita del film, in realtà ho iniziato a lavorare a questo film quasi tre anni fa e non pensavo né che sarebbe uscito in sala né che sarebbe capitato in un momento così propizio! Sembra quasi fatto di proposito…Sentivo infatti la necessità di rivisitare una certa epoca, in particolare rispetto ai movimenti delle donne, partendo da una considerazione legata all’oggi e mi sono chiesta: da dove siamo partiti? cosa abbiamo trasformato e dove siamo approdati? cosa ci portiamo dietro come retaggio del passato? A Milano c’è stata una grande manifestazione sulla legge 194 e sull’aborto ed io probabilmente, anche senza premeditarlo, vivendo all’interno della società attuale, ho sentito nell’aria che erano maturi i tempi per girare e raccontare questo film. Molte donne hanno rivissuto le loro storie attraverso il film e mi hanno ringraziato oppure sono state contente di riflettere su certe tematiche. La vita di un film come il mio, sul grande schermo, non è mai troppo lunga, bisognerebbe girare continuamente a presentarlo.

Le donne, secondo te, hanno ancora mete da raggiungere e battaglie da combattere?
Sì, certo. Forse le battaglie più difficili sono quelle del quotidiano: nel privato, talvolta, è responsabilità delle donne non uscire da certi ruoli, siamo noi stesse che difendiamo certi territori, e lì si ritorna agli schemi di sempre, le donne spesso hanno un atteggiamento protettivo verso gli altri e questo rende più lungo il processo di cambiamento. Poi ci sono le battaglie “pubbliche”: il discorso delle coppie di fatto, della fecondazione assistita, e tutto ciò che è legato a questa sfera. Un altro aspetto importante è quello delle donne immigrate che, lavorando spesso a casa per noi, ci consentono di fare le cose che ci piacciono: questo rapporto andrebbe esplicitato, smascherato. E’ triste che la nostra libertà dipenda dalla loro situazione di lavoratrici precarie. Questa catena coinvolge tantissime donne in tutto il mondo.

(7 maggio 2008)

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