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La crisi e l’Italia che vorrei...

La crisi e l’Italia che vorrei...

Lavoro / 2 - ...un paese che 'crede nelle sue potenzialità, investe su se stesso e sulle persone'. Intervista ad Anna Maria Artoni, Presidente Confindustria Emilia-Romagna

Bartolini Tiziana Lunedi, 08/11/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2010

La crisi che stiamo attraversando è globale e non di carattere transitorio. Molti studiosi e osservatori autorevoli ritengono che vada rivisto il nostro modello di sviluppo poiché la crisi è sistemica. Qual è la sua opinione al riguardo?

È vero, la crisi ha portato in maggiore evidenza i ritardi strutturali del nostro Paese, che continua ad essere frenato da carenze ed inefficienze che lo rendono meno competitivo e allungano i tempi per una piena ripresa, che richiederà almeno tre o quattro anni. Sono rientrata da poco da Shanghai, dove ho visto un mondo che va alla velocità della luce, proiettato nel futuro, con grandi programmi e ambizioni. Questa è l’Italia che vorrei: un paese che crede fortemente nelle sue potenzialità, che investe su se stesso e sulle persone, che mette al centro la conoscenza e dà opportunità alle giovani generazioni.



L'azienda Italia, intesa come 'sistema paese' non va bene per niente. Concorda con questa affermazione? Quali sono i mali principali e i rimedi (politici, economici, culturali, di formazione, ecc.) a breve e medio termine, anche con un ordine di priorità?

Il confronto internazionale dimostra che si sta ulteriormente ampliando il gap di crescita tra l’Italia e le principali economie sviluppate. Il rischio di declino c’è, è innegabile. Ed è aggravato dal fatto che il debito pubblico, e la necessità di contenerlo, imporrà politiche ulteriormente restrittive. In assenza di riforme il pericolo è che la crescita bassa determini un aumento strutturale della disoccupazione: questo è un aspetto di grande preoccupazione. Una situazione che si potrà evitare solo a condizione che intervengano incisive riforme economiche e sociali che diano al Paese e al sistema delle imprese una concreta prospettiva di competitività e di sviluppo.



Siamo tutti d'accordo: in Italia c'è bisogno di innovazione. In questo senso le donne possono giocare un ruolo?

Le donne sono portatrici di innovazione nelle loro organizzazioni, e in generale nella società, per il diverso modo di analizzare le situazioni e gestire le relazioni, per la capacità di dialogo e l’atteggiamento di risoluzione positiva dei problemi. Certo, serve un impegno notevole, che richiede anche molti sacrifici per gestire gli aspetti problematici di incrocio tra lavoro e vita personale e competere in condizioni di effettiva parità con gli uomini. C’è ancora strada da fare per superare completamente gli stereotipi e i pregiudizi culturali che resistono nei confronti delle donne impegnate in ruoli lavorativi di un certo livello. E c’è anche un altro tema che mi sta molto a cuore: il merito. La nostra è una società che non riconosce il merito, e questo penalizza soprattutto giovani e donne. Invece deve essere il valore della persona a vincere, vanno premiate le capacità indipendentemente dall’età o dal genere.



Perché secondo lei la possibilità di flessibilizzare il lavoro in Italia si è trasformata in una precarizzazione estrema che rende difficile vivere e progettare esistenze?

Non è facile dare una risposta. Il nostro Paese risente di un rallentamento globale ma anche e soprattutto di un problema di competitività di sistema, che rischia di allontanare nel tempo la crescita, con risvolti negativi sull’occupazione. Ma, al di là e oltre la crisi, la vera priorità oggi è elevare il potenziale di sviluppo delle imprese e delle persone: un obiettivo che richiede di agire a vari livelli. D’altra parte la flessibilità del lavoro è essenziale per rispondere alle esigenze in continuo mutamento dei mercati. Ma va accompagnata con misure stabili ed efficaci per controbilanciare la flessibilità: in particolare la formazione, per assicurare una continua adattabilità e occupabilità dei lavoratori, politiche attive del lavoro per facilitare i passaggi da un’attività ad un’altra, e un sistema di sicurezza sociale del reddito.



Come sappiamo l'Italia è fanalino di coda per l'occupazione femminile e ha mancato l'obiettivo di Lisbona del 60%. Le donne sono talmente scoraggiate che neppure cercano più il lavoro. Ma un paese industrializzato può fare a meno delle donne nel mondo del lavoro?

Assolutamente no. Oggi non è più possibile immaginare un mondo del lavoro in cui le donne siano relegate in posizioni di secondo piano. Le donne operano alla pari degli uomini in molti contesti lavorativi e il loro contributo è fondamentale, in tutti i settori e tutte le aree. Certo, occorre rafforzare le condizioni di base perché ciò si realizzi: una grande sfida che dobbiamo affrontare è la completa inclusione delle donne nel mercato del lavoro.



Una società accogliente per le lavoratrici e per la maternità è una società in cui lo stato sociale offre servizi adeguati a costi sostenibili. Si chiama welfare, ma in Italia le risorse dedicate sono sempre più esigue. Qual è il suo punto di vista di donna e di imprenditrice?

Il sostegno alla natalità e la conciliazione tra maternità e lavoro devono essere ai primi posti dell’agenda dei governi. In Emilia-Romagna l’offerta di servizi è già consistente, ma in generale nel Paese è insufficiente. Oltre il 30 per cento delle madri abbandona il lavoro dopo la maternità, e non per libera scelta: la carenza di posti degli asili nido, i costi elevati e gli orari troppo corti rappresentano una penalizzazione ancora troppo forte. La diffusione di questi servizi sociali, che andrebbero secondo noi realizzati in convenzione con società private specializzate, operanti nel terzo settore o no-profit, avrebbe a sua volta l’effetto di creare nuova occupazione femminile.



Pensa che provvedimenti come quelli attuati in Norvegia che obbligano i CdA ad avere alte percentuali di donne siano efficaci e che potrebbero essere utili anche da noi?

Personalmente in linea di principio sono contraria a qualsiasi tipo di mercato troppo vincolato dalle regole. L’Italia però è così lontana da un equilibrio di genere che probabilmente soltanto una modalità legislativa come le “quota rosa” potrebbe ridurre lo squilibrio, ma si tratterebbe di una “provocazione”. Si tratta però di un tema nuovo e delicato, e ogni proposta che imponga obblighi alle aziende deve essere valutata con cautela nei suoi effetti, perché un provvedimento come questo può avere su ogni azienda - a seconda della dimensione, del settore, della natura stessa dell’azienda - ricadute diverse e non sempre coerenti con gli obiettivi primari, che pure sono condivisibili.



(8 novembre 2010)

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