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La crisi? È donna!

La crisi? È donna!

A pagare nei periodi di crisi sono, oltre ai giovani e agli anziani, soprattutto le donne... L'analisi di Costanza Florimonte, segretaria confederale CGIL Imperia

Mercoledi, 25/11/2009 - LA CRISI? È DONNA!





Il quadro generale

A "pagare" nei periodi di crisi sono, oltre ai giovani ed agli anziani, soprattutto le donne, obbligate a conciliare le difficoltà derivanti da bilanci familiari sempre più esigui, salari ancora più ridotti rispetto a quelli degli uomini, e pensioni che le confinano, nel caso della reversibilità, ben oltre la soglia della povertà.

Una condizione che rischia di essere dimenticata nel mare magnum dei problemi che il nostro Paese sta affrontando nella crisi economica mondiale, che attanaglia le nazioni industriali e post industriali del vecchio, come del nuovo mondo. Anche perché le donne sono sempre pronte a fare un passo indietro di fronte alle difficoltà collettive, a mettersi da parte per favorire altri soggetti sociali.

Inoltre, preoccupata di perdere il lavoro, molto spesso precario, la donna è molto spesso costretta a fare i conti anche con la propria situazione familiare, a volte complessa.

Così le donne subiscono più rapidamente le conseguenze negative di un’epoca di turbolenze economiche, mentre beneficiano in ritardo della ripresa. E già prima della crisi, la maggior parte delle donne viveva di economia informale, con retribuzioni e protezione sociale quantomeno ridotte.

La diffusa emarginazione delle donne nella sfera sociale, economica e politica, si traduce nel caricare sulle loro spalle il peso maggiore delle difficoltà. Hanno ancora un minore accesso all’educazione e ad altri servizi sociali, un lavoro meno assicurato e un’insufficiente rappresentatività politica. Questa situazione non solo è moralmente inaccettabile, ma è anche un ostacolo allo sviluppo economico. Troppo volentieri si dimentica che le donne contribuiscono in modo significativo all’economia, oltre che alle loro comunità e nuclei familiari. Discriminazione ed emarginazione ostacolano però questo contributo, danneggiando la società. Come le disuguaglianze di reddito, la discriminazione di genere tende a fermare crescita e sviluppo, paralizzando parte del nostro capitale umano.

All’inizio il flagello si è abbattuto su finanza, assicurazioni ed edilizia, settori tipicamente maschili, ma ora che la crisi comincia a diffondersi nel settore dei servizi, dove in molti paesi c’è una prevalenza di lavoratrici donne, la situazione assume contorni assolutamente drammatici.

Anche secondo il Global Employment Trends for Women Report (GET), le cifre della disoccupazione sono destinate ad aumentare con l’aggravarsi della crisi.

In definitiva, su circa 51 milioni di persone che quest’anno rischiano il posto di lavoro, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), 22 milioni saranno donne.

Più di una donna su 9 è già uscita dal mercato del lavoro in seguito alla maternità; in due terzi dei casi la ragione è costituita dalle necessità correlate alla cura dei figli, in un terzo dei casi da motivazioni legate alla tipologia del contratto di lavoro. La nascita di un figlio si configura, ancora per numerose donne, come la principale causa di abbandono temporaneo o definitivo del mercato del lavoro.

Le donne italiane hanno una legge di tutela della maternità tra le migliori in Europa (legge 1204 del 1971), però non si può dimenticare come i datori di lavoro considerino la maternità con una sempre più diffusa e sottile ostilità.

A conferma di ciò basta riflettere sull’altissima percentuale di occupate tra le donne senza figli. La maternità appare spesso come un ostacolo alla carriera, alla produttività, all’operosità, in altre parole un “problema privato”, che poco ha a che vedere con la collettività ed il sociale.

Anche la tanto decantata flessibilità si è dimostrata un’arma a doppio taglio, per le lavoratrici.

Tra le motivazioni iniziali, quando fu introdotto il contratto part-time, fu addotta anche la volontà di essere più vicini alle esigenze delle donne, perché questa tipologia contrattuale avrebbe permesso alle donne di conciliare meglio famiglia e lavoro, ma col tempo questa formula contrattualistica si è rivelata quasi una “forma di ghettizzazione” per il sesso femminile.

Non a caso i lavoratori part-time sono per oltre l’80% donne, costrette a questa scelta sacrificando le prospettive di carriera e il livello retributivo. Se per i lavoratori-uomini si tratta più che altro di un periodo di transizione, di un’esperienza lavorativa per accedere al mondo del lavoro, per le donne rappresenta la soluzione lavorativa più diffusa, a volte anche contro la propria volontà e aspirazioni.

Inoltre, il sistema di welfare non sembra adeguarsi, e non è una novità, alle esigenze femminili. Gli asili infantili sono in numero non sufficiente ad accogliere le richieste che giungono ogni anno; lo stesso vale per gli asili nido.

Un discorso simile può essere fatto per gli anziani. Il sistema di welfare vigente, privo di “supporto esterno” per le famiglie, è ormai entrato in profonda crisi e rischia il collasso.

Il quadro generale, con lo scarso utilizzo dei congedi parentali da parte dei padri, conferma la resistenza culturale verso il superamento di una divisione di ruoli rigidamente dicotomica, ma va spiegato anche tenendo conto dello svantaggio economico, per la coppia, derivante dal fatto di rinunciare al 70% del salario più elevato, costituito, appunto, generalmente, da quello maschile.

Diversamente, nei paesi scandinavi, dove si ha diritto al 100% dello stipendio durante tutto il primo anno di congedo, la percentuale di padri che fa uso dello strumento, è aumentata.

Il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000 con lo scopo di fare dell’Unione Europea l’economia più competitiva del mondo e di pervenire alla piena occupazione entro il 2010, indicava tra gli obiettivi urgenti da conseguire, per quella data, un tasso di occupazione femminile pari al 60%, con obiettivo intermedio per il 2005 del 57%.

Secondo i dati Istat, ancora oggi il tasso di occupazione femminile italiano è tra i peggiori in Europea: secondo solo a Malta, con un tasso del 34,9%.

Se si analizza la situazione a livello territoriale le problematiche diventano ancora più acute: se nel Nord-Est il tasso storico di occupazione femminile si attesta intorno al 57%, nel Mezzogiorno è del 31%.

È però ampiamente dimostrato che l’inserimento della componente femminile nei processi decisionali, nonché garantire maggiori opportunità alle donne, si traduce nella riduzione della povertà e nella crescita economica. Più di una ricerca, in questo senso, ha dimostrato che le donne tendono, rispetto agli uomini, a spendere una parte maggiore del loro reddito nell’educazione dei figli e in altri obiettivi dello sviluppo umano.



In Liguria

La crisi in Liguria è arrivata in ritardo. Il 2008 si è chiuso contenendo i danni, ma il 2009 è stato drammatico. A febbraio la cassa integrazione è aumentata del 1.484% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, mentre è cresciuta del 265% rispetto a gennaio; entro l’anno, 25.000 lavoratori perderanno il posto e 44.000 dovranno fare i conti con problemi di reddito. Ma non è tutto.

L’economia ligure deve misurarsi anche con un problema che la pone in condizioni anche peggiori per affrontare la crisi: la precarietà del lavoro. I senza tutela sono 244.000: in pratica un lavoratore su quattro si trova senza protezione. La cassa integrazione, che è schizzata alle stelle, è stata utilizzata per il 92% dai lavoratori dell’industria, il settore forse più garantito, ma ormai i lavoratori dell’industria sono, a Genova, solo il 15% del totale.

In Liguria si è avuta un´esplosione del precariato, con 111.000 lavoratori flessibili (il 24%, contro il 12,5% della media nazionale), e soprattutto i lavoratori senza tutela, che comprendono i precari, ma anche quelli delle aziende piccole e piccolissime, dove la cassa integrazione non esiste (il 68%, contro il 51% della media nazionale).

Risultato? Il tasso di disoccupazione ligure sale al 6,1% (da 38 a 42 mila in un anno), e riguarda quasi esclusivamente il lavoro dipendente, si accompagna a una forte flessione degli occupati (da 652 a 637 mila) e a una flessione della popolazione attiva (da 690 a 679 mila), cioè adulti potenzialmente attivi che, scoraggiati, non cercano più un’occupazione.

L’ultimo elemento di diversità ligure riguarda l’occupazione femminile: le donne, in provincia di Imperia, hanno il tasso di disoccupazione più alto di tutta la Liguria, che sfiora il 10%. Nella fascia di età 15-24 anni, si arriva addirittura al 39,5%.

Tutto questo evidenzia, oltre a una già citata debolezza dell’occupazione femminile, una cronica fragilità dell’apparato industriale e un’ipertrofia del terziario, con un ulteriore allontanamento dal Nord e con segnali inquietanti di scoraggiamento dell’offerta di lavoro, che fanno apparire come un lontano ricordo le fugaci speranze di tenuta di non molto tempo fa.

L’aumento relativo del lavoro autonomo in corrispondenza della riduzione di quello dipendente, inoltre, non è un segnale di particolare positività: se uno dei limiti strutturali del nostro sistema è il nanismo delle imprese, il lavoro autonomo lo implementa.

Dobbiamo far crescere le dimensioni di impresa, anche incentivando le aggregazioni, creando centri di servizio integrati, diffondendo l’innovazione per elevare la competitività del nostro sistema produttivo.

Non dobbiamo dimenticare inoltre che, ad attutire la caduta, rientrano il lavoro di cura delle donne (spessissimo extracomunitarie), quello di stranieri in professioni non qualificate e degli ultracinquantenni che hanno rinviato la pensione di anzianità.



Le possibilità di uscita

Il Presidente Obama, in America, ha lanciato un chiaro messaggio: non basta rilanciare la produzione e combattere la disoccupazione, ma bisogna fare in modo che i benefici delle misure per combattere la crisi vengano distribuiti senza filtri discriminatori. Una legge del genere è necessaria anche in Italia, dove è divenuto quanto mai urgente trasformare l’enorme capitale umano femminile, ancora largamente sottoutilizzato, in una “risorsa” nella partita dello sviluppo, competitività e benessere sociale.

Quindi, in questo momento di grave crisi sociale ed economica, più donne occupate e partecipi alla vita economica significa più democrazia, più sviluppo, più nascite, famiglie più dinamiche e sicure.

Le azioni possono essere concentrate su tre linee di intervento: investimenti nell’occupazione delle donne, tutela della maternità e l’estensione dei servizi, e cioè:

incentivare l’accesso al lavoro (incentivi alle imprese per assunzioni a tempo indeterminato con riconoscimenti per le donne che abbiano figli minori o disabili);

agevolare il rientro al lavoro (incentivi alle imprese per le assunzioni a tempo indeterminato in favore di donne ex precarie disoccupate);

maggiore qualificazione (interventi di formazione con indennità per le donne disoccupate che vogliono rientrare nel mercato del lavoro dopo esserne uscite);

supporto economico per la fruizione di asili e trasporti (prevedendo, a esempio, rimborsi per le rette di asili e trasporti).

“Parificare l’accesso di uomini e donne ai lavori sostenibili e qualitativi, nonché ampliare la protezione sociale attraverso sussidi di disoccupazione e programmi assicurativi, partendo dal riconoscimento della posizione vulnerabile delle donne sul mercato del lavoro”. Questa, in sintesi, è la strada che occorre intraprendere.

L’affermazione sopra riportata, in una globalizzazione senza limiti che procede a ritmi vertiginosi, è quella tracciata dal premier Wen Jiabao, che la Cina intende perseguire e che, casualmente, coincide con problemi per noi irrisolti da centinaia di anni.

Bibliografia

Crisi e occupazione pagheranno le donne – Gabriele Battaglia, 6 marzo 2009-09-25 Il lavoro femminile era già in crisi prima della crisi – Irma Marano – Il paese delle donne, 21 settembre 2009

Crisi globale, l’occupazione femminile è la più colpita – Supachai Panitchpakdi, 17 aprile 2009

Disoccupati boom. La Liguria sempre più distante dal Nord – Repubblica, 27 marzo 2009

Disoccupati, l’Italia sprofonda – Il Secolo XIX, 23 settembre 2009, pag.2

Donne e paura di perdere la propria autonomia economica – Marisa Montegiove – Manageritalia, 20 maggio 2009

Economia e occupazione in Provincia di Imperia nel 2008-2009 – Bruno Spagnoletti, Responsabile Ufficio Economico CGIL Liguria

Lavoro, un 2009 da incubo. A rischio 25mila posti – Nadia Campini – Repubblica

Liguria, aumenta la disoccupazione femminile – Rassegna.it, 16 aprile 2009

Occupazione in provincia: dati e previsioni sconfortanti – Daria Chiappa, 23 giugno 2009

Rapporto Economia Imperia – CCIAA Imperia, 8 maggio 2009 per la 7° giornata dell’economia

Superamento crisi: più servizi a donne e famiglie. Donne:,risorsa nella partita dello sviluppo – Teresa Zaccaria – Pianeta Donna, 31 luglio 2009



Costanza Florimonte

Segretario Generale FILLEA CGIL Imperia

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