Lunedi, 03/02/2020 - Nell’addio definitivo del Regno Unito all’Unione Europea, ufficiale da oggi, si stanno spendendo in queste ore molte parole. Tra i tanti contributi manca, ancora una volta, una seria analisi su quali saranno le conseguenze della Brexit sulle donne inglesi, dando per scontato che gli effetti saranno uguali per tutte/i. Non è così.
Secondo uno studio inglese molto approfondito, la Brexit provocherà infatti delle gravi conseguenze economiche, sociali e politiche soprattutto per le donne e in particolare per quelle più vulnerabili
Vediamo come è potuto accadere.
La Brexit è stata per le donne inglesi una scelta sin dall’inizio pesantemente condizionata dall’oscuramento della loro voce pubblica, mediatica e politica.
Nella campagna che ha preceduto il referendum, infatti, le opinioni degli uomini hanno occupato l’85% degli articoli della stampa, il 73% del tempo dedicato alle interviste televisive, il 93% se consideriamo solo la presenza maschile delle 20 personalità più in vista tra le quali il 70% concentrato sui 4 uomini rappresentanti delle forze conservatrici schierate per il Leave. D’altronde anche gli spin doctor che si sono occupati della campagna referendaria sono stati soprattutto uomini.
L’oscuramento della voce delle donne nei media è andata di pari passo con l’irrilevante presenza delle tematiche di genere e di parità nei contenuti della campagna referendaria: le discussioni riferibili all’impatto della Brexit sulle donne non hanno superato il 6%, quelle sulla parità di genere il 2%. Le organizzazioni schierate per il Leave hanno inoltre citato le donne solo 7 volte su 400 pagine di materiale di propaganda esaminato.
Le donne che si sono esposte nel parlare di Brexit, sia giornaliste che politiche, sono inoltre state oggetto di numerose manifestazioni di odio on line, incluse anche minacce di morte e di stupro fino ad arrivare all’omicidio della parlamentare laburista Jo Cox, subendo così un clima di intimidazione che ha favorito la predominanza delle opinioni maschili non solo durante la campagna referendaria ma anche dopo: l’estenuante dibattito parlamentare successivo al referendum ha visto infatti protagonisti uomini per l’87% del tempo. Solo 3 ore di discussione su un totale di 500 sono state dedicate all’impatto della Brexit sulle donne, che pure rappresentano il 50% della popolazione.
Le donne sono inoltre pressoché assenti sia dai team di negoziatori con la UE (11%) che dai Ministeri e dipartimenti maggiormente coinvolti nelle trattative (11%) e non possono quindi influenzare le scelte sulle modalità di attuazione della Brexit.
Nonostante una simile campagna referendaria, le donne inglesi devono aver sospettato la fregatura: hanno infatti votato in lieve maggioranza per il Remain (51%), mentre sono stati soprattutto gli uomini alla fine a decidere di andarsene dalla UE (il 55% degli uomini ha votato per il Leave, il 45% per il Remain).
In particolare gli uomini più giovani hanno votato per il Leave in misura doppia rispetto alle coetanee, mentre le donne avrebbero preferito un secondo referendum e una soft brexit molto più degli uomini (invece favorevoli alla Hard Brexit per il 44% in più delle donne).
Con il senno di poi, le elettrici inglesi avevano ragione a non fidarsi dell’autorevole voce di politici e giornalisti uomini, perché la fregatura in effetti c’è.
Tra le conseguenze socio-economiche più importanti della Brexit lo studio ricorda che l’austerità inevitabile graverà soprattutto sulle donne le quali, tra rinunce, maggiore lavoro di cura, crisi lavorativa e riduzione dei servizi, hanno già sopportato secondo le ricerche l’86% delle conseguenze dei tagli alla spesa pubblica dal 2010 in poi.
Pensiamo all’impatto della riduzione dei servizi nella sanità, dove le donne sono la maggior parte degli utenti diretti e indiretti (dai reparti di maternità alle caregiver) e dove la maggioranza della forza lavoro è composta da donne. Consideriamo ancora l’impatto sulla vita delle donne legata alla riduzione dei servizi sociali, per i/le anziani/e i/le disabili/e oppure dei servizi giudiziari e della sicurezza pubblica per la protezione delle vittime di violenza.
L’impatto occupazionale regressivo per le donne riguarderà anche il settore privato, soprattutto le attività tradizionalmente femminili, non solo per quanto riguarda la riduzione dei posti di lavoro ma anche l’aumento del part time involontario e del gender pay gap.
Gli effetti dell’inevitabile recessione economica colpirà inoltre soprattutto le famiglie più povere, all’interno delle quali le donne sopportano il maggiore peso in termini di aumento del lavoro di cura, di criticità lavorativa e di riduzione dei servizi. Soprattutto le donne meno qualificate saranno spinte dalla Brexit a rinunciare al lavoro retribuito a favore di quello non retribuito, aumentando la spirale negativa della povertà, sia individuale che familiare. Una situazione che potrà essere solo peggiore per le donne che appartengono a minoranze etniche o ad altri gruppi sociali oggetto di discriminazione.
Questo impoverimento economico e sociale andrà di pari passo con un arretramento importante in termini di protezione dei diritti delle donne anche a livello normativo.
Quando era nella UE il Regno Unito, nazione tradizionalmente campionessa dell’ultraliberismo capitalista, si è sempre distinta per l’opposizione feroce a tutti i provvedimenti comunitari a protezione dei diritti delle donne e per la parità. Non c’è stata Direttiva europea su questi temi che non sia stata approvata dalla UE nonostante l’opposizione del governo inglese: basti ricordare le direttive sulla maternità, sui lavoratori part time o interinali, sugli orari di lavoro, sulla conciliazione vita-lavoro, sul congedo parentale, sulle quote nei Cda, sull’accessibilità per i disabili, la discriminazione, sul contrasto alla tratta e alla violenza di genere.
Uscire dalla UE significa quindi per le donne inglesi non avere più lo scudo protettivo della normativa europea le cui Direttive, lo ricordiamo, sono alla base anche dei principali provvedimenti nazionali sui diritti dei lavoratori e delle donne. Le inglesi perderanno anche la possibilità di far rispettare i propri diritti rivolgendosi alla Corte di Giustizia europea, mentre si vedranno allontanare sempre di più la possibilità che venga ratificata la Convenzione di Istanbul, nonostante la violenza contro le donne in Inghilterra abbia i livelli peggiori in Europa.
Tocca quindi ricominciare tutto il percorso di affermazione dei diritti delle donne e per la parità nella legislazione nazionale britannica ma le prime iniziative post Brexit fanno già temere il peggio: il governo inglese nel Withdrawal Act del 2018, la legge con la quale l’Inghilterra ha ritirato la propria adesione alla UE, si è rifiutato di accogliere gli emendamenti che volevano mantenere il quadro normativo europeo sui diritti delle donne e per la parità, a partire dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Giusto per rendere l’idea attraverso i numeri, nel Withdrawal Act del 2018 le donne o la parità di genere sono citate una volta sola in 107 pagine, mentre in un altro importante documento, il Withdrawal Agreement del 2018, il documento sull’accordo per uscire dalla UE, le donne sono citate 4 volte in 585 pagine.
Si tratta di una débâcle dei diritti delle donne che coinvolgerà anche la società civile: le organizzazioni inglesi di donne perderanno infatti l’accesso ai network europei che sono stati sostenuti fino ad oggi dai programmi di finanziamento comunitari, e si teme che il governo inglese non sarà altrettanto generoso nel sostituirli.
E tutto questo succede nella patria delle Suffragette, il posto nel quale è iniziata la storia del femminismo, eh, ricordiamocelo.
Diverse sono le lezioni quindi che noi italiane possiamo trarre da questa vicenda:
- è indispensabile che le donne tentate dalle proposte populiste e sovraniste che spingono verso la disgregazione e l’uscita dalla UE siano ben informate e coscienti di quello cui andremmo incontro. In questo senso la difficoltà di ascoltare la voce delle donne nei media e nella politica rappresenta un problema rilevante,
- è sempre più necessario che le attiviste già impegnate nella politica, nell’economia e nella società si occupino anche delle questioni generali e collettive, oltre che dei temi tradizionalmente femminili. Quando entrano in gioco cambiamenti così epocali e strategici, come abbiamo visto, finiamo in una trappola che fa pagare a noi il conto salato di danni prodotti soprattutto dagli uomini,
- di fronte a queste nuove sfide globali non basta più l’impegno nella dimensione privata a proteggere noi stesse e le nostre famiglie ma è necessaria una maggiore partecipazione di carattere pubblico e collettivo, se non addirittura politico.
Come l’esempio inglese ci mostra chiaramente, e come ebbe a dire un politico statunitense, Ralph Nader, infatti, “se non ti occupi di politica, sarà la politica ad occuparsi di te”.
Articolo di Giovanna Badalassi pubblicato il 31 gennaio 2020 in Ladynomics
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