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La ‘Papolatria’

La ‘Papolatria’

Marketing religioso - La macchina della persuasione mediatica ha annullato qualsiasi seria analisi storica sulla figura di Wojtyla

Stefania Friggeri Lunedi, 01/08/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Agosto 2011

L. De Paoli, psicoanalista, ha analizzato il Codice di Diritto Canonico promulgato da Wojtyla, dopo aver elencato le prerogative assegnate al papa, ignote a qualsiasi leader per quantità e qualità (es: è esente da ogni giudizio per cui non è possibile appellarsi e fare ricorso) commenta: “I titoli e le funzioni di cui il papa si appropria evidenziano la fantasia sottostante di sentirsi un soggetto unico, eccezionale, perfetto, santo, incensurabile, senza limiti nell’esercizio del potere”. Quest’impostazione sovraecclesiale e mitica della figura papale spiega la sotterranea critica del suo papato al Concilio Vaticano 2° cui viene imputato di aver metabolizzato la modernità, di aver inviato un messaggio edulcorato ed annacquato (i teologi e i religiosi dissenzienti sono stati estromessi o emarginati, le voci progressiste dei laici dono state tacitate). Eppure Wojtyla ha sfruttato tutti i canali offerti dalla modernità per divenire una figura carismatica: giornali, T.V., viaggi in tutto il mondo gli hanno dato una visibilità universale e hanno legittimato il suo governo assoluto e romano-centrico. Da qui la “papolatria”, il “santo subito”: se per papa Roncalli ci sono voluti 37 anni, per Wojtyla ne sono bastati 6. Forse anche perchè Ratzinger, vedendo le chiese svuotarsi, ha sperato di richiamare i disamorati con un’operazione di marketing: grandi masse, parate, mondanità. Dunque anche post mortem gli è stata tributata un’apoteosi planetaria con un bombardamento mediatico che ha annullato qualsiasi analisi storica seria: se tu ricordi, ad es., la sua immagine sorridente al balcone con Pinochet, ti obiettano che ha incontrato anche Castro e decine di governanti, nella convinzione che il dialogo sia irrinunciabile. Giusto. Ma come valutare quella specie di assoluzione offerta al dittatore? O la raccomandazione rivolta a Romero di vivere in accordo col governo benché l’arcivescovo gliene avesse denunciato le pratiche criminali? E questo perché la Teologia della Liberazione odorava di zolfo e andava condannata. Comprensibile: Wojtyla veniva dalla Polonia dove la Chiesa era perseguitata dai comunisti. Ma un padre Arrupe non era propriamente un comunista, l’America latina era l’orto di casa degli USA non dell’URSS; in ogni caso il Vangelo insegna a guardare l’uomo in carne ed ossa, più che a stilare proclami sul Bene in astratto. Come Wojtyla ha fatto nel caso dell’Aids (causa la proclamazione del principio astratto della castità The Guardian ha scritto che le sue mani sono sporche di sangue) o dell’aborto (l’Evangelium vitae paragona l’aborto all’eutanasia e alla pena capitale) o del celibato (poche le vocazioni, casi di pedofilia, non pochi preti con mogli e figli illegittimi). Eppure Wojtyla è entrato nel cuore delle moltitudini che, anche se non seguono i suoi rigorosi precetti, vengono attratte dalla sua coerenza tra il dire e il fare, dalla sua offerta di certezze. Perché il nocciolo duro ed esigente della sua predicazione parla di certezze ad un’umanità che vive il disincanto del XX° secolo, quando la promessa di benessere e sicurezza, grazie al riconoscimento dei diritti e alla democrazia, non si è convertita in un progetto di vita individuale capace di senso. Al disagio esistenziale di chi ha creduto in un mondo che predicava l’individualismo ma poi ha realizzato la massificazione, il papa polacco ha provato a creare dentro la società frammentata e liquida, un orizzonte unitario, una “communitas” dove il singolo può trovare una risposta al suo bisogno di solidarietà e fratellanza, di riscatto dalla solitudine e dall’insignificanza. Infatti una società secolarizzata che rinuncia al sacro ha come unico fondamento e garanzia la volontà di partecipare al bene comune; e se questa viene meno, la sovranità cade nelle mani dei professionisti della politica e la democrazia, ridotta a tecnica procedurale, a macchina di persuasione mediatica diventa incapace di nutrire il desiderio di futuro. Wojtyla dunque ha sempre proseguito dritto davanti a sé, insensibile all’opinione dominante: quando la guerra ha insanguinato il Golfo ha dichiarato la pace bene supremo e l’eco della sua voce, solitaria ma vibrante, ha stretto in un abbraccio corale milioni di persone nel mondo. Anche se il suo richiamo alla pace si fonda sul rispetto assoluto della Vita, principio da cui discende anche la condanna dell’aborto, della libertà di coscienza femminile. Che per Wojtyla va “rettamente intesa” e “ordinata alla Verità”, ordinata cioè all’accoglienza della “legge naturale”, inscritta da Dio nel cuore di tutte le sue creature; perché l’uomo, se non accetta lo statuto di creatura e dunque la dipendenza dal Creatore, si perde nella vertigine dell’orgoglio luciferino, incapace di darsi un’etica, di riconoscere il principio che distingue il bene dal male. Siamo di fronte insomma ad un pensiero che sfida la modernità e denuncia come esecrabile l’uomo che non ha più bisogno della Chiesa, che si fonda su se stesso, sulla sua autonomia . Come ha dimostrato l’avvento dei totalitarismi, comunismo e nazismo, uniti da un unico denominatore: l’uomo fabbro della sua fortuna. Ma questa rigidità dottrinale si esprime anche verso le altre religioni: alla ricchezza delle aperture (Assisi, il Muro del Pianto, la sinagoga…) corrisponde la “Veritatis splendor”: le altre religioni si muovono verso la Verità ma solo la cattolica la possiede. Inoltre questo sincero desiderio di incontro come si concilia, ad es., con la proclamazione di innumerevoli santi e beati? Fra cui figure molto discutibili come E.de Balaguer (un cedimento all’Opus Dei, detta Octopus per la sua tentacolare capacità nel procurarsi potere e ricchezza), o Stepinac (che nulla ebbe da obiettare sulla persecuzione e i massacri dei cattolici croati contro gli ortodossi serbi e gli ebrei), o padre Pio (uomo della pietà popolare, simbolo di una religione scaduta nella superstizione, nel miracolismo, nell’offerta di meraviglioso a masse nutrite di irrazionalità e spettacolarizzazione). Inoltre la santificazione, come tutti i miti, soddisfa il bisogno di dimenticare la vita reale, ci allontana dalla socialità nell’ansia di modellarci su figure singole, irraggiungibili: da qui senso di colpa e personalità dipendenti, disposte all’obbedienza. Come secondo De Paoli si augurava Wojtyla.



(1 agosto 2011)

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