“E’ vero, raramente il femminismo è stato così diviso come oggi su entrambe le questioni, forse perché sono strettamente connesse. Ma, come sempre accade quando nascono divergenze, capita anche di trovarsi davanti a condivisioni inaspettate. E’ il mio caso”. Così risponde LeaMelandri, voce autorevole e sempre originale del femminismo italiano, che incontriamo a Roma durante il suo laboratoriodiscritturadiesperienza presso la Casa Internazionale delle donne di Roma. Il suo richiamo alle divergenze e alle condivisioni all’interno del movimento femminista risponde a una mia sollecitazione sui due temi che dividono profondamente le militanti: la prostituzione e la gestazione per altri, su cui si è scatenato un ampio, e talvolta aspro dibattito all’indomani della pubblicazione dell’appello del gruppo Se Non Ora Quando Libere in cui si chiedeva alle Istituzioni europee di sancire un divieto assoluto rispetto alla possibilità di ricorrere a questa pratica. “In posizione critica da tanti anni rispetto al pensiero di Luisa Muraro, nel caso della “gestazione per altri” sono d’accordo con lei: lo considero uno sfruttamento della capacità procreativa del corpo femminile, con l’aggravante ‘di classe’. Sappiamo bene quanto possa essere condizionante in questo caso la povertà. Provocatoriamente, lo chiamerei proprio “utero in affitto”, per sottolineare che restiamo nella concezione più antica del corpo della madre come “contenitore”, dimora, luogo di passaggio, e non come l’esperienza di una singolare unità a due, che segna la vita della donna come dell’essere che cresce dentro di lei, e che si può ipotizzare all’origine della differenziazione che abbiamo ereditato tra l’identità di un sesso e dell’altro. Il femminismo è stato per me innanzi tutto presa di coscienza di quanto avesse pesato sulla cancellazione della donna come persona, individualità, la sua riduzione a corpo, sessualità al servizio dell’uomo e obbligo procreativo. Da questo punto di vista penso che il processo di liberazione da modelli imposti e purtroppo interiorizzati, per non dire incorporati, sia soltanto all’inizio. Avere oggi, come ricaduta dell’emancipazione, una maggiore possibilità di scelta, uscita dalla passività – ad esempio l’uso del proprio corpo per finalità diverse (successo, denaro, potere, ecc.) - non significa tout court “essere libere” di scegliere. Il mio interrogativo, fuori da ogni moralismo ma fedele alle intuizioni più radicali del movimento delle donne degli anni ’70, resta: “Corpi liberati o corpi prostituiti?”. Detto questo, preciso che non chiedo nessun divieto per legge, ma solo che si continui a discuterne senza cedere a facili contrapposizioni”.
Guardando indietro, negli anni '70, le donne si presero le strade e le piazze conquistando diritti di cui godiamo ancora oggi e consapevolezze importanti sul ruolo delle donne nell'ambito pubblico e in quello privato. E l'importanza del femminismo fu determinata anche dal grande numero di donne comuni che aderirono a questa voglia di cambiamento. Negli anni il tessuto sociale ha subito grandi mutazioni e chiedo a Lea quali pensa possano essere i temi su cui le donne tornino a tessere alleanze e proporsi come soggetto politico forte. “Si può dire che il femminismo degli anni ’70 è stato un fenomeno di massa, che ha raggiunto le donne di estrazione sociale, istruzione, cultura e professionalità diversa. E’ entrato nella case come nei luoghi di lavoro: dalle fabbriche alle redazioni dei giornali, dalla scuola alle organizzazioni politiche e sindacali. Non c’è stata mai più una ‘politicizzazione’ così estesa e così radicale nell’assunto di voler andare “alle radici dell’umano”. Se tante storie personali, destinate come la mia a restare chiuse nella dimensione ‘privata’ si sono aperte allora all’impegno sociale, a passioni durature, amicizie consolidate da ideali e progetti condivisi, è perché la politica è venuta vicino alla vita, alle domande che chiedevano una risposta collettiva. Io cominciavo a insegnare e potevo finalmente portare dentro quelle aule esperienze –legate all’appartenenza di classe e di sesso- considerate tradizionalmente impresentabili, innominabili in quel luogo. Il “fuori tema” diventava “il tema”. Il rapporto individuo-collettivo, di cui sembra oggi essersi persa non solo memoria, ma cognizione, è stata una pratica del movimento antiautoritario prima ancora che del femminismo. Nasceva dalla felice intuizione che solo attraverso l’ascolto e lo sguardo di altri/altre le storie, i vissuti considerati particolari di ogni singolo, uomo o donna, potevano rivelarsi il sedimento “naturalizzato” di una storia generale mai scritta, di esperienze umane, le più universali, come la nascita, l’amore, la sofferenza, la sessualità, la maternità, la vecchiaia, la morte, ecc. Nel “piccolo gruppo femminista” ognuna riconosceva alle altre la possibilità di vedere ciò che lei non vedeva di se stessa. L’autocoscienza era una “pratica” e, come si è detto spesso, si poteva trasmettere solo “praticandola”. Chi ha visto nel femminismo degli anni ’70 solo la conquista di alcuni diritti e libertà, ignora che cosa è stata la rivoluzione culturale e politica di un movimento che intendeva partire dai luoghi più lontani dalla politica – come le problematiche del corpo, dell’inconscio - per sovvertire l’ordine esistente, i suoi poteri, i suoi saperi, le sue istituzioni pubbliche e private. Non si trattava, allora come oggi, di costruire un “soggetto politico” forte, né tanto meno “rappresentanze” istituzionali, alleanze e così via. Tale era stata la politica tradizionalmente intesa, riprodotta anche dai gruppi rivoluzionari degli anni ’70. Il femminismo -come scrisse allora Rossana Rossanda - era “il sintomo” della crisi di quel modello di politica, e un “embrione” del suo ripensamento. Se nei decenni successivi la radicalità delle sue pratiche si è andata sempre più eclissando, è perché si sono incontrati ostacoli esterni – ostilità, messa sotto silenzio, ignoranza, emarginazione -, e difficoltà interne: adattamenti, ritiri nel privato, chiusura sia pure involontaria nelle proprie associazioni. Detto questo, bisogna aggiungere che il femminismo è l’unico movimento che è andato oltre gli anni ’70 e che oggi è presente con pratiche, temi, azioni diverse in tutte le città. Una frammentazione dovuta al fatto che si tratta di una politica anomala, che interroga la vita nei suoi risvolti più intimi, che ha mantenuto in molti casi l’assunto iniziale del “partire da sé”, anche quando si tratta di affrontare i problemi della vita sociale nella sua complessità. Non uscirà mai da una costellazione così variegata di interessi un “soggetto unico”, per cui la forza collettiva necessaria per essere incisive va cercata nei rari momenti di aggregazione, incontro, scambio di idee ed elaborazione di scelte condivise che sono i convegni nazionali, come i due ultimi che ci sono stati a Paestum nel 2012 e 2013. E come quello che ci terrà il 4/5/6 marzo 2016.
Proprio di questo appuntamento le chiedo qualcosa di più, circa le intenzioni con cui si è deciso di organizzarlo e sulle speranze che vi sono riposte. “L’idea di ritornare in un luogo storico del femminismo italiano – a Paestum si era svolto l’ultimo incontro nazionale degli anni ’70, nel 1976 - è nata, occasionalmente o no, da un invito che ricevetti da alcune donne di Paestum l’8 marzo 2012. L’accoglienza che ricevetti, il loro desiderio di farci tornare e la generosa disponibilità dell’organizzazione in loco, decisero con immediatezza di quello che è venuto dopo. Per l’incontro che ci sarà il prossimo anno sono state decisive: la grave situazione in cui sono venuti a trovare i Centri antiviolenza, dopo l’uscita di un “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”, che istituzionalizzandoli, ne cancella di fatto l’autonomia, riducendoli a servizi sociali; le ricadute sulla scuola, chiamata a fare azione “preventiva” attraverso l’educazione di genere, ma senza tenere conto che portare nella scuola le problematiche del corpo vuol dire innanzitutto formare gli adulti, mettere in discussione la neutralità della cultura trasmessa finora. Un immenso lavoro culturale che non può ridursi, come rischia di accadere, al “politicamente corretto”. Promotrice dell’iniziativa è l’associazione nazionale dei centri antiviolenza, D.I.R.E., ma con un impegno e coinvolgimento diretto di altre realtà: dalla Libera Università delle Donne di Milano a Scosse, ai Consultori privati laici di Milano alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, e altre singole e gruppi legati ai temi della salute nei consultori, e al mondo del lavoro più in generale. Tre giorni insieme, in un luogo incantevole, sarà, come in passato, prima di tutto l’esperienza di cosa voglia dire, nella storia del femminismo, la pratica di un ragionare, discutere, decidere ‘collettivamente’, fuori dagli schemi che hanno imbrigliato finora la politica organizzata, che cosa ha significato per la generazione degli anni ’70 e per quelle venute dopo, la “scandalosa inversione tra vita e politica”. Primum vivere, come è stato lo slogan di Paestum 2012".
Lascia un Commento