Parliamo di bioetica - Informare è un atto tecnico all’interno di una relazione unilaterale.Comunicare implica un rapporto empatico e bilaterale
Macellari Giorgio Lunedi, 22/03/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2010
Se comunicare non è affatto semplice in generale, nel contesto dei tumori mammari lo è ancora meno. Diciamola così: il cancro al seno è una vera e propria sfida per la comunicazione scientifica e per l’educazione pubblica. E questo per almeno 4 ragioni.
1. La complessità della malattia si fonda su conoscenze di biologia molecolare difficili da spiegare: le donne devono comprendere che ci sono molti tipi di cancro, ciascuno con una sua diagnosi, cura e prognosi; e non possono pensare che la malattia che ha colpito l’amica avrà un decorso comparabile con quello della propria.
2. Esistono numerose aree grigie nella pianificazione del programma terapeutico. Questo implica una partecipazione della donna nelle scelte di cura e nell’esplicitazione delle preferenze.
3. L’accesso sempre più massiccio a Internet mette il Senologo a confronto con pazienti sempre più informate ed esigenti in termini di risposte precise; è sempre più raro trovare donne che preferiscono “non sapere” e delegano al medico ogni scelta. Ormai le donne sanno perfettamente cosa chiedere. Perciò i Senologi devono imparare a diventare buoni comunicatori ed educatori pubblici, forse più di altri operatori sanitari poiché un’informazione chiara ed una intensa interazione con la donna sono componenti essenziali per la guarigione. Medici e infermieri, dal canto loro, avvertono un grande bisogno di imparare le regole basilari della buona comunicazione: hanno scoperto che è decisamente importante.
4. La comunicazione in sé può procuri danni – l’effetto nocebo, il gemello malvagio del placebo – che vanno a sommarsi a quelli oggettivi del male e a quelli legati all’immaginario e alle turbolenze emotive che vi si scatenano intorno. Le parole possono diventare pugnali.
In Senologia – come in tutta la medicina – comunicare è anche inevitabile: impossibile non farlo (anche volendolo, si finisce sempre per trasmettere un messaggio). Perciò conviene imparare a comunicare bene. Due notizie, in merito. La prima è sgradevole: pochi operatori sanitari sono bravi comunicatori. La seconda – più confortante – è che si può imparare a comunicare bene. Attenzione: non esiste una comunicazione buona o cattiva in sé. Esistono invece comunicazioni “efficaci” e “inefficaci”. E allora partiamo dall’abc.
La teoria
Ricordiamo ciò di cui stiamo parlando: comunicare una diagnosi importante ad una persona che, in generale, non possiede tutti gli strumenti culturali per comprenderne il linguaggio. La situazione è stressante: ci si trova di fronte una donna spaventata, preoccupata per sé, ma anche per i suoi cari. Ci si deve aspettare una reazione di shock, quindi bisogna sapere che almeno la metà delle cose dette non saranno ricordate; e che della metà delle cose ricordate, molte saranno deformate da un’interpretazione pessimistica.
La comunicazione medico-paziente parte con una simmetria: ci si trova uno di fronte all’altro, gli occhi sono alla stessa altezza, si è seduti entrambi, entrambi si parla, si ascolta e si usano toni pacati, mostrando pari disponibilità e attenzione. In breve, tuttavia, la relazione diventa asimmetrica: qualcuno comincia a domandare, l’altro a rispondere; c’è chi non sa cose a fronte di qualcuno che ne sa molte; chi ha paura e chi non teme; chi ha bisogno di aiuto e chi lo offre; chi si sente debole e chi è percepito come forte. La relazione si configura come una partita a scacchi fra un neofita e un campione, nella quale dopo poche mosse si riconosce chi domina. Ma la partita non si conclude mai con uno scacco: chi detta le regole deve dosare con equilibrio gli scambi ed i passaggi, per costruire una nuova simmetria basata su una gerarchia riconosciuta e condivisa.
C’è distinzione tra informare e comunicare. Informare è un atto tecnico all’interno di una relazione unilaterale. Comunicare implica un rapporto empatico e bilaterale: è un dialogo che mette in comune un patrimonio e garantisce una specie di ricompensa (cum-munus). Nel comunicare, dunque, le emozioni sono sempre palpabili e fanno parte del copione – guai al regista-Senologo che se ne volesse liberare.
Tuttavia, per l’efficacia della comunicazione, non si può correre il rischio di essere travolti dal fiume in piena delle emozioni che esondano. L’abilità consiste proprio nella ricerca di un equilibrio fra gli estremi del distacco emotivo spinto fino all’estraniazione e della identificazione partecipata fino alla sofferenza. Nemmeno in questo il Senologo nasce istruito: impara sul campo.
Impara ad esempio che la relazione si stratifica secondo una piramide comunicativa la cui sommità, occupata dalla componente verbale, ne è solo la punta (come l’iceberg) e conta assai poco: solo il 10% del dialogo. Il restante sommerso è suddiviso fra comunicazione non-verbale (mimica facciale e posturale) e para-verbale (tono vocale, ritmo, pause). Dunque bisogna fare attenzione a non creare conflitti fra ciò che si dice e come lo si dice, perché siamo abilissimi nel cogliere le sfumature e smascherare bugie e insicurezze. Simili conflitti alimentano diffidenza e sfiducia e sbarrano le porte ad una comunicazione efficace.
Attenzione ancora all’effetto nocebo. L’essere umano ha una speciale inclinazione a evidenziare i messaggi negativi e mostra più paura per il male che speranza di un beneficio, probabilmente per effetto di una pressione evolutiva alla sopravvivenza. Ciò significa, per il Senologo, interrogarsi su quanto a fondo può inoltrarsi nel terreno della verità esplicita.
Infine: una comunicazione inefficace non è solo controproducente per chi la riceve, ma si rivela un’opportunità mancata per chi la fa. Al Senologo che non è stato capace di comunicare efficacemente resterà sempre il rimpianto di non aver lasciato una buona immagine di sé…
La pratica: i 7 gradini
Possiamo prendere come modello la comunicazione della diagnosi di cancro o del referto istologico, ad intervento ormai avvenuto. Gli “esperti” raccomandano di stratificare la comunicazione in 6 gradini successivi. Personalmente ne aggiungerei sempre un settimo.
1. Prepara il contesto. Riserva uno spazio fisico discreto, confidenziale, senza rischi di interruzioni. Garantisci un tempo dedicato. E’ il biglietto da visita, la prima impressione che si offre. Meglio che sia gradevole: gli altri gradini saranno meno difficili da salire.
2. Verifica cosa sa. E’ la fase in cui si comincia a entrare nel privato della donna, a scavare nei dubbi, a mettere a nudo le paure. Domanda, dunque, per capire il grado di consapevolezza che la donna ha della propria malattia.
3. Verifica cosa vuole sapere. La maggior parte delle donne vuole sapere tutto e rapidamente. Ma qualcuna preferisce un’esplorazione più superficiale e più lenta: asseconda questi bisogni, lasciando che sia il suo tamburo a dettare il ritmo. Per evitare equivoci, puoi chiedere apertamente come la donna desidera che ci si comporti: la relazione può in tal modo convergere su un piano di simmetria, eliminando rischi di paternalismo e scivolando senza attriti verso una comunicazione confidenziale e autentica.
4. Comunica. A questo punto puoi dare tutte le informazioni richieste, verificando passo a passo l’avvenuta comprensione di quanto si sta dicendo. Rassicura la donna che se non ha capito un passaggio o un termine è suo diritto riprenderlo, perché la comprensione fa parte del percorso di cura. Rapporta il linguaggio alle proprietà culturali della donna, e lasciati sostenere da un sapiente uso di metafore, simboli e disegni. E’ in questa fase che devi trovare un buon equilibrio fra distacco emotivo e identificazione partecipata.
5. Ascolta. Ora puoi raccogliere ed accogliere le emozioni scatenate – spesso un misto di incredulità, rabbia, angoscia, confusione, desiderio di fuga e voglia di lottare. Lasciale elaborare. Da questa elaborazione emergeranno dubbi, domande, approfondimenti. Li devi comprendere e chiarire, rinunciando al desiderio di imporre scelte personali e interrogandoti invece su quali sono i valori messi in gioco dalla donna.
6. Sintetizza. Sono i momenti finali, è tempo di concludere. Insieme alla donna riassumi quanto è noto e come si dovrà procedere. Si apre la porta per l’accettazione condivisa del piano di cura. La firma del consenso informato sarà testimonianza (burocratica) di un accordo (umano) stabilito fra persone. Una stretta di mano o un abbraccio sigleranno il commiato e l’arrivederci.
Potrebbe essere finita qui. Ma in tutto questo impegno il Senologo ha profuso molte energie, ha conosciuto qualcuno che prima era un estraneo, ha frugato nelle sue intimità, ascoltato le sue speranze, i suoi sogni, la sua disperazione. Non ha soltanto dispensato un sapere tecnico, si è anche concesso empaticamente, ha usato carburante spirituale. Ha trascurato se stesso e si è un po’ prosciugato. Ma la giornata può essere ancora molto lunga, altre donne possono aspettare dietro la porta: e anch’esse meritano la stessa attenzione professionale e un’identica capacità di accoglienza.
Ecco il settimo gradino, tutto per il Senologo: siediti, rilassati, svuota la mente dal sovraffollamento che la comunicazione vi ha introdotto, dirada le tenebre, sciogli lo stress, diluisci le emozioni – anche tu sei un essere umano, dopotutto. E adesso puoi ricominciare.
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