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Khady Koita

Khady Koita

La donna del mese - 'Dobbiamo resistere e unirci, pur restando fedeli a noi stesse e alla nostra cultura di appartenenza'

Silvia Vaccaro Lunedi, 15/11/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2010

Le mutilazioni genitali femminili, MGF, sono una antica pratica tribale slegata dalle confessioni religiose e molto diffusa in varie regioni del continente africano. Due le tipologie più comuni: l’infibulazione (asportazione del clitoride, delle piccole labbra, di parte delle grandi labbra vaginali e cucitura della vulva, rimane un foro per permettere la fuoriuscita dell'urina e del sangue mestruale) e l’escissione (asportazione del clitoride). Queste pratiche privano le donne del piacere sessuale per tutta la vita e ovviamente anche dell’integrità fisica e psicologica. Incontro a Roma Khady Koita, senegalese e vice-presidente di EURONET, l’organismo europeo per la lotta contro le MGF nato nel 1997 e ufficializzato nel 2002. Nel periodo 2007-2009, grazie a dei fondi europei e della cooperazione belga, Khady e le sue colleghe sono riuscite a portare avanti un’importante campagna di sensibilizzazione contro le mutilazioni. Finalmente nel 2010 varie associazioni ed enti, tra cui EURONET hanno redatto una bozza da presentare all’ONU per chiedere una risoluzione ad hoc che permetta di abolire definitivamente le MGF: l’obiettivo è fare pressione sui governi degli Stati africani in cui sono maggiormente diffuse. Anche Khady ha subito in prima persona questa assurda violenza e dalla sua esperienza personale è nato un libro, “Mutilata” edito in Italia da Cairo Publishing e pubblicato e premiato in molti paesi europei. Con buona parte dei ricavi delle vendite, Khady sta costruendo una casa delle donne in Senegal, ma la sua non è una lotta personale: “quello che ho vissuto io l’hanno subito molte donne, e non parlo solo di MGF. Penso ai matrimoni precoci e forzati con uomini molto più vecchi o alla violenza domestica, destino comune a molte donne africane. Prima però era un tabù parlare di violenza, adesso si discute di MGF nelle tribune politiche, nei media, nelle comunità. Quello che serve in questo momento è continuare a lavorare in rete e per farlo servono fondi, di cui purtroppo adesso non disponiamo. L’impegno è trovarli. L’Europa è attenta ai diritti umani e sono tutti d’accordo nel sostenere che le MFG sono una violazione dei diritti fisici e morali della persona; pertanto, tutte le misure europee in materia di immigrazione, dovrebbero affrontare la questione. In generale, però, non mi piace la parola ‘integrazione’, ritengo più opportuno usare la parola ‘adattamento’, perché bisogna adattare la propria vita al posto in cui si vive. Io parto dalla riflessione che i figli dei migranti sono prima europei e dopo africani: nascono in Europa, studiano qui, crescono qui, parlano le lingue europee. Anche se vanno in Africa in vacanza, cosa sanno di quella cultura? I genitori li educano al rimpianto della madre terra e io lo trovo assurdo. Bisogna invece spingere i propri figli a studiare, ad acquisire competenze per trovare un buon lavoro. Dare motivazioni e incentivi ai giovani perché possano essere i cittadini del futuro. Un giorno se vorranno tornare in Africa, avranno qualcosa da dare al continente, altrimenti non ha nemmeno senso tornarci.”

“E le donne migranti - le ho chiesto - di cosa hanno bisogno veramente?” “Vorrei dire finalmente che non siamo vittime e non abbiamo bisogno di compassione. Vogliamo che le istituzioni europee riconoscano il nostro status di esseri umani. Non siamo schiave dei nostri mariti e dobbiamo esigere gli stessi diritti delle donne europee. L’emancipazione è possibile anche se prende altre vie e necessita di un impegno da parte nostra, che inizia, secondo me, con lo studio della lingua del paese dove viviamo: se non c’è comunicazione, non c’è comprensione. Non appena impari la lingua, puoi studiare, puoi imparare tante cose. Mai ad appiattire le differenze però: io non voglio essere come una donna italiana ma essere semplicemente me stessa e condividere le esperienze. Le donne, poi, più degli uomini, dovrebbero fare gruppo, unirsi, dato che sono tristemente accomunate dalla violenza che gli uomini tendono a usare contro di loro. Dobbiamo resistere e unirci, pur restando fedeli a noi stesse e alla nostra cultura di appartenenza.”



(15 novembre 2010)

 

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