Selezionato per Un certain régard al Festival di Cannes 2023, il film sarà sugli schermi dal 5 ottobre
Quadri di un’oppressione. Campo e controcampo si sfidano in una gara dell’assurdo, dove c’è sempre una persona, un individuo con le sue necessità, i suoi sogni, le sue opinioni che si trova di fronte l’invisibile volto del Potere, multiforme ma spietato nell’assolvere al compito repressivo che gli è stato affidato.
Kafha a Teheran è un film che, come dichiarato dai registi Alireza Khatami e Ali Asgari, ha lo spirito curioso e sperimentale del grande cineasta iraniano Abbas Kiarostami: il modello di riferimento è la poesia Ghazal, una forma poetica classica equiparabile al sonetto della poesia europea, che utilizza coppie legate tra loro dal tema scelto.
“Abbiamo deciso di utilizzare la tecnica del dibattito che troviamo in tante poesie Ghazal – affermano Ali e Alireza –. È una tecnica basata su un dialogo fra due personaggi che usano la loro arguzia e il loro umorismo per fare luce su concetti filosofici”.
Ed ecco che si alternano nell’inquadratura fissa, adottata dai due registi personaggi, come il padre di un neonato per il quale i genitori vorrebbero scegliere il nome “straniero” David; Selena, che innocentemente si applica a provare un balletto davanti allo specchio mentre la madre sceglie per lei l’abito ritenuto idoneo per la “Giornata dei doveri scolastici” (povera ragazzina: “Ma si vedono solo due occhi!”); la studentessa Aram convocata da una preside moralista che la accusa di concubinaggio (“tuo padre deve sapere che figlia libertina ha”, peccato che il teste a suo carico sia Jalil, il bidello della scuola… ipovedente).
Come osservano i registi, “il film potrebbe apparire come assurdo e tragicomico ma per un cittadino iraniano è super-realistico: queste sono le conversazioni che facciamo ogni giorno”.
Al tempo stesso, Khatami e Asgari ritengono che le diverse vicende messe in scena riguardino il rapporto cittadino/autorità in generale, quindi da questo punto di vista la loro opera assume un valore universale.
Lo è certamente per molti aspetti – mentre altri sono obiettivamente tipici del contesto iraniano – tra cui il quadro dedicato alla giovane Faezeh, impegnata in un colloquio di lavoro a tu per tu con il bossdi una grossa azienda. Dopo essersi vantato di non avere concorrenti, così lasciando intuire quanto sia potente e con i giusti agganci, il padre-padrone si permette approcci sempre più espliciti con la candidata. La quale mostra un disagio sempre più evidente e, con grande dignità, non smette di chiedere all’interlocutore cosa abbiano a vedere con i requisiti lavorativi le sue umilianti domande (“Sei sposata?”, “Hai il ragazzo?”, “Sai cosa significa You are beautiful?”).
Il film si apre su una ripresa in time-lapse di Teheran e si chiude con un terremoto che scuote, e forse distrugge, la multiforme, caotica capitale dell’Iran.
La dimensione temporale ha uno speciale significato per i cittadini, e in particolare per gli artisti, di questo grande, vitale, oscuro Paese. Così Ali e Alireza raccontano la loro esperienza di regia: “Abbiamo passato abbastanzatempo ad aspettare, come i due personaggi di Aspettando Godot. Aspettare unproduttore, aspettare un cast, aspettare un budget. Questa volta non volevamo aspettare. Così abbiamo chiamato alcuni amici, abbiamomesso insieme i nostri soldi e abbiamo fatto le riprese del film in sette giorni”.
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