Sabato, 14/10/2017 - Mi dispiace di non aver avuto il tempo per riprendere in mano il romanzo. Da una parte.
Dall’altra il tempo non trovato ha una ragion d’essere; ci sono alcune esperienze che voglio mantenere con il ricordo di quelle emozioni precise. Una rilettura significa modificarne la percezione e leggere "IT" è una di quelle esperienze. L’ho amato e attraversato come forse solo un’adolescente può fare. Per me è stato definitivamente un romanzo di formazione.
Insieme a Carrie. Certo sono horror, ma King ha una capacità unica di descrivere infanzia e adolescenza. Questo è vero leggendolo da adulte, ma leggerlo quando tu sei adolescente, lascia il segno. Parla di te e proprio a te. Direttamente e centra le cose. Quelle che hanno valore, quelle che contano. O almeno così è stato per me a quell’età.
Andare a vedere "IT", il film, è stato come andare a trovare un vecchio amico a cui si è state molto legate, il tempo è passato, siamo cresciuti e chissà come sarà.
Piacevole. E’ stato piacevole.
Non mi aspettavo di ritrovarlo esattamente come l’avevo lasciato: sono cambiata io, sarà cambiato anche lui. Infatti. Il film non è il libro, come è ovvio.
E men che mai mi aspettavo di trovarci tutto quello che io ci ho visto allora.
Quindi sono stata felice di ritrovare alcune cose. Alcune di quelle importanti.
Prima tra tutte lei, Beverly.
Possiamo apprezzare le tensioni tra lei e gli altri, la lucidità di dire la cosa giusta quando serve, di avere una chiarezza sul da farsi rimanendo in relazione con gli altri. Non ha paura, nonostante fuori ci sia l’orrore, nonostante a casa ci sia l’orrore. Questo si vede bene, e in caso di dubbi è anche esplicitato a chiare lettere.
Lei rispetto agli altri è in una fase diversa, ha attraversato cose che gli altri non hanno attraversato. Porta, come si dice, una specificità di genere. Ed è lei che traghetta concretamente il club dei perdenti nell’espressione che IT assume per lei, un bagno di sangue in questo caso. E’ successo, è tangibile, lo vedono anche gli altri. E’ un passaggio, c’è da tirarsi su le maniche e intervenire lì sul posto e poi oltre, insieme.
E’ vero, non c’è anche tutto il resto, ma la Bev interpretata da Sophia Lillis è rimasta Bev.
E di questo diciamo grazie.
In questo caso, e sarò pure di parte, non ci interessa niente che il film non passi il “Bechdel test”. Lei segna una differenza nel gruppo. Da un punto di vista di genere lei da sola vale la storia. Nel film viene resa senza ammiccamenti, i diversi primi piani servono a farci vedere il suo sguardo sul mondo. Cosa vede lei e come si colloca in relazione a quello che osserva. Funziona bene. E che si sappia, non c’è gara: in un’ottica femminista, il personaggio di Bev ha davvero qualcosa da dire, al contrario ad esempio di Wonder Woman (il film tanto discusso che di femminista ha solo una parvenza).
Evitati ammiccamenti anche sul fronte “romance”: nessun cedimento a riduzioni mielose, pruriginose o stereotipate. I personaggi rimangono persone e non macchiette da romanzo rosa. Rispetto alla restituzione dei sentimenti adolescenziali della storia,siamo nell’ambito delle intenzioni di “A Little Romance” (1979, diretto da George Roy Hill) e “Moonrise Kingdom” (2012, diretto da Wes Anderson). Quindi bene, questa ragazzina con i suoi amici, hanno qualcosa da dire su questo, qualcosa di personale. Certo è vero non lo dicono compiutamente, nel film non c’è spazio per approfondire questa dimensione, ma si fanno capire. Ricordiamoci che stiamo parlando di un horror “Rated R” molto leggero (vietato ai minori di 17 anni non accompagnati da un adulto).
Rispetto al linguaggio “sessista” ho trovato molto divertente e pertinente l’uso delle battute di Richie "Boccaccia" come “cartina di tornasole”, il farle risultare sempre “fuori posto” ma tollerate bonariamente dal resto del gruppo è una buona strategia e fa il suo effetto.
Tra le tante cose che mi vengono in mente in questa specie di analisi tra lettura di King e recensione del film ne scelgo alcune che magari possano risultare utili per chi ha intenzione di andare al cinema.
Il clown, qualcosa andrà detta anche su questo. Bill Skarsgård convince a sufficienza, e ancora devo vederlo in versione originale, ho apprezzato in particolare interpretazione durante i dialoghi, perchè è lì che si deve rendere la malvagità: nella prossimità. A volte ci si parla con il male, ma siamo in grado di intuirlo? Ne siamo coscienti? Oppure nonostante i mostri sbavino efficacemente, si contorcano e strabuzzino gli occhi possiamo non accorgercene.
«Sarà la luce soffusa » , «Ho visto sicuramente male » , «Mi faccio troppe strane idee ».
A volte è bene dare credito alla percezione di dissonanza per prendere distanza e mettere a fuoco. A volte è bene farlo prima che sia troppo tardi. Ora non voglio dire che nel film ci sia tutto questo, ce lo possiamo vedere come no. Io ho trovato, negli scambi ravvicinati “uno a uno”, un Pennywise credibile che non indulge in “spiegoni”, è creatura visibilmente affamata e non si nutre solo di carne. Giusto mi ha infastidito quel modo scattoso di avvicinarsi che gli è stato dato, quello risulta posticcio, ma si può sorvolare. Ed alcune scene in cui si manifesta in altro modo sono anche notevoli.
Invece la questione del confronto delle proprie paure viene rappresentata ma quasi ridotta a mera enunciazione nelle presentazioni che vediamo di chi farà parte del the Losers' Club. Emerge in modo decisamente più evidente nella scena della lezione di Remus Lupin sui “mollicci nell’armadio” dove, guarda la coincidenza, troviamo anche ragni, palloncini e travestimenti ridicoli (sempre tratto da un libro, “Harry Potter e il prigioniero di Azkaban”, diretto da Alfonso Cuarón, 2004).
Avrei voluto vedere la città più cattiva, anche se alcuni personaggi secondari riescono a trasmettere disagio, non basta. La comunità non risulta inquinata da crudeltà capillare come dovrebbe. Derry me la ricordo come un corpo unico, infettato; questo elemento qui manca. Forse, a contrasto con quanto sappiamo fin dal breve viaggio di Georgie e della sua barchetta, possiamo intuire qualcosa dalle pulite riprese dall’alto, qualcosa si nasconde sotto il cielo terso sovrastante la città.
La sensazione globale è che sia un film a metà, non solo perché è solo una parte del romanzo, ma anche perché ci sono due dimensioni diverse che non si amalgamano. Da una parte vediamo un un horror che vuole spaventare e dall’altra la storia di sei ragazzini ed una ragazzina che si affacciano insieme su un mondo ostile, un viaggio insieme attraverso il quale si esce cambiate/i. Da ponte tra le due dimensioni lo fanno alcuni piccoli monologhi che spiegano la ratio nel voler fronteggiare IT in uno scontro che nessuno vuole affrontare. I losers si prenderanno questa responsabilità, collettivamente. Questa parte è didascalica, nonostante l’ottima prova dei giovani interpreti.
Spaventa? Per me che riesco a spaventarmi ancora nonostante sia cresciuta in buona misura a pane ed horror, meh. Insomma.
Alcuni elementi funzionano. Ma no, la paura, quella seria, no.
E neanche l’inquietudine pervasiva, che avremmo potuto (dovuto) sentire per qualche dettaglio un pò dappertutto a Derry nel Maine.
Per dar spazio alle mie elucubrazioni ho tralasciato diverse info, ma sarete capacissime(i) di trovare tutto on line su sceneggiatura, cast, regia, costumi (ottimo lavoro), fotografia, musiche, differenze con il romanzo, tartarughe, etc...
In sintesi:
Se non lo avete fatto, leggete il libro.
Se vi piacciono gli horror e le storie di adolescenti, andate a vedere il film.
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