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ISTITUTO ITALIANO DI BIOETICA. I nostri primi venti anni

ISTITUTO ITALIANO DI BIOETICA. I nostri primi venti anni

Parliamo di Bioetica - Le dimensioni medica, ambientale e animale della bioetica; lo sguardo delle donne e l’etica della cura fino alla biopolitica. La complessità e la responsabilità condivisa sono state il filo conduttore del convegno di Genova

Battaglia Luisella Sabato, 30/05/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2015

 Se intendiamo per bioetica un’etica applicata al bio-realm (regno della vita) essa riguarda l’intero mondo vivente, umano e non umano e, per estensione, anche l’ambiente in cui si svolgono le varie forme di vita. È questo il significato originario del termine - come era stato coniato nel testo di Van Potter, Bioetica, un ponte per il futuro (1971) - a cui si è ispirato nella sua attività l’Istituto Italiano di Bioetica che ha festeggiato i suoi 20 anni con un convegno sul tema Uomo, natura, animali. Per una bioetica della complessità (17 aprile, Genova, DISFOR-Aula magna), dedicando i suoi lavori ad uno studioso insigne, punto di riferimento per molti di noi, di recente scomparso, Giovanni Berlinguer.



Guardare alla bioetica nell’orizzonte della “complessità” significa proporre un collegamento tra le sue diverse dimensioni: quella medica, che riguarda la nascita dell’uomo, la sua salute e la sua morte dinanzi alle possibilità offerte dalle biotecnologie; quella ambientale, che s’interessa alle questioni di valore connesse alle conseguenze pratiche del rapporto tra l’uomo e la natura; quella animale, che si occupa degli aspetti morali, sociali e giuridici delle relazioni dell’uomo con le altre specie. La riflessione filosofica è chiamata ad un confronto interdisciplinare con le diverse scienze della vita, dalla biologia alla medicina umana e veterinaria, dall’ecologia all’etologia. Da qui una serie di interrogativi per molti aspetti inediti: quali sono i confini del nostro universo morale? Quali le nuove frontiere della giustizia? Come raccordare gli interessi dell’umanità attuale con quelli delle generazioni future, dell’ambiente e delle altre specie?



Ne è derivato, da un lato, un ripensamento della visione convenzionale della bioetica, prevalentemente confinata al solo ambito umano, in base ad una opzione di valore antropocentrica; dall’altro, un interesse ad affrontare questioni di salute e di qualità della vita in modo più comprensivo e ‘totale’ che ha spinto verso una crescente attenzione per il tema delle differenze. Se alla bioetica si è spesso rimproverato di compiere analisi astraendo dalle situazioni concrete, una cultura, maturata specie in ambito femminista, ha corretto radicalmente tale tendenza avviando una concentrazione sul soggetto donna, i suoi diritti, i suoi bisogni, dinanzi alle sfide della biotecnologie.



Per questo, fin dalle sue origini, l’Istituto si è impegnato a ‘dare voce alle donne’, - ancora in gran parte assenti o scarsamente rappresentate nei Comitati di maggior rilievo politico - e quindi a valorizzare gli apporti delle studiose alle aree della bioetica, favorendo il confronto tra diverse prospettive teoriche e orientamenti normativi. La riflessione sulla specificità femminile si è rivelata, in questo modo, uno stimolo per focalizzare un complesso di questioni spesso ignorate o rimosse e per individuare precise richieste politiche, modellate su una realtà in continua evoluzione, con particolare attenzione, quindi, sia per la ‘bioetica del quotidiano’ - che tocca temi che riguardano direttamente la nostra vita di tutti i giorni (come, ad es, l’alimentazione) - sia per la ‘bioetica di frontiera’ - che guarda al futuro, alle nuove frontiere aperte dalle biotecnologie, come l’ingegneria genetica. Non ci è sembrato, infatti, in alcun modo irrilevante che i soggetti i cui corpi sono la materia delle nuove tecnologie riproduttive fossero in schiacciante maggioranza donne, mentre coloro che progettano, sperimentano, applicano tali tecnologie fossero in schiacciante maggioranza uomini…



Il pensiero della differenza ha avuto pertanto importanti riflessi in campo bioetico poiché ha spinto a considerare da vicino la realtà femminile
, dando vita a istanze che sarebbero state sommerse da analisi ‘neutrali’ e avviando ricerche riferite a quel terreno storico-sociale da cui nascono le questioni di vita e di morte. Un campo di grande interesse ci è subito apparso quello delle nuove tecnologie riproduttive: qual è il loro impatto - ci si è chiesti - sulla vita delle donne? Nel dibattito contemporaneo si tende a sottolineare una fondamentale ambivalenza: da una parte, i progressi medici e scientifici hanno offerto alle donne più ampie opportunità di decidere se, quando e a quali condizioni essere madri; dall’altra, hanno accresciuto la possibilità di esercitare un controllo maggiore, rispetto al passato, sulle loro scelte. Gli interrogativi riguardano, dunque, la salute e il benessere psico-fisico delle donne ma anche i riflessi delle biotecnologie sui ruoli sociali: al di là della dimensione propriamente biologica, esse investono infatti la dimensione simbolica e affettiva. In questo quadro si sono sollevate inquietanti domande sulla loro affidabilità (sul loro carattere sperimentale e non semplicemente terapeutico); sui formidabili interessi in gioco, sui condizionamenti sociali (lo stigma della sterilità), sulle conseguenze politiche. Tutti interrogativi che nascono da un peculiare approccio diretto insieme al ‘concreto’ (il vissuto delle donne, la quotidianità dei loro bisogni) e al ‘simbolico’ (il significato del corpo, il valore della maternità).



Non dimentichiamo che uno degli scopi principali del pensiero femminista in bioetica è stato quello di mettere in evidenza le questioni di potere (nel senso di autonomia, consapevolezza, autodeterminazione sulle scelte riproduttive, terapeutiche etc.) e dunque di denunciare l’oppressione subita dalle donne. Si pensi ad argomenti - cui l’Istituto ha dato ampio spazio - come quello della salute femminile, la medicina di genere o il ruolo delle donne, sia come pazienti che come professioniste, in ambito medico. In questo contesto sono maturate le istanze di democratizzazione della bioetica, la ricerca di nuove forme di empowerment, l’esigenza di “dare voce a chi non ha voce”.

Il concetto di genere ci è subito apparso una categoria esplicativa e interpretativa di importanza cruciale nel cui ambito è stato possibile collocare la tematica della cura che, declinata in molteplici direzioni bioetiche, è stata il vero leitmotiv del Convegno: innanzitutto un modello da applicare in vista di un’umanizzazione della medicina, nel segno di una ‘alleanza terapeutica’ che riceve il suo senso da un’originaria disposizione di solidarietà, ma anche un paradigma alternativo, valido sia nel nostro rapporto con la natura che col mondo animale, col superamento della tradizionale visione androcentrica del ‘dominio’.



La questione della cura, dei bisogni cui risponde, delle relazioni cui dà luogo è al centro da decenni del dibattito femminista. Se la cura - ci siamo chiesti - è un ‘attività umana necessaria e fondamentale perché è assente dal nucleo dei valori sociali e politici e non fa parte integrante della nostra idea di cittadinanza? Probabilmente, siamo condizionati da un’immagine del cittadino che ci deriva da secoli di pensiero sociale contrattualista - quello appunto di un individuo autonomo, razionale, capace di stipulare patti vantaggiosi con controparti in grado di reciprocare. La cura, pertanto, sembra priva di valore nella vita pubblica perché la politica viene descritta come un’arena in cui si confrontano e si mediano interessi contrapposti. Ma è ancora sufficiente il contratto sociale o occorre pensare ad una visione della democrazia che integri in sé il valore della cura? E quale può essere il ruolo delle donne in questa prospettiva? La realtà e la nostra esperienza ci mettono ogni giorno sotto gli occhi molte situazioni in cui gli individui non possono contare sulla stessa abilità nell’utilizzare le proprie risorse. Bambini, anziani, persone non autosufficienti, disabili, rischiano di non poter esercitare quei diritti fondamentali di cui pure sono nominalmente titolari. Per questo ci è parso importante riconoscere la centralità della cura e proporla come valore capace di informare la vita politica e di rendere i cittadini consapevoli della loro interdipendenza, preoccupati dei bisogni del prossimo, coscienti della comune vulnerabilità e, quindi, disponibili a porsi empaticamente dal punto di vista altrui. Sbaglieremmo, tuttavia, - ci siamo detti - a pensare che l’attitudine del ‘prendersi cura’ sia una sorta di ‘provincia delle donne’: occorre, a nostro avviso, da un lato universalizzare i valori del lavoro di cura, legati per ragioni storiche alla vita femminile, dall’altro ribadire che tale compito è sostanzialmente accessibile anche agli uomini che dovrebbero finalmente assumersi la loro quota di responsabilità. Come si legge nell’antico mito narrato da Igino, ognuno di noi è figlio di Cura, la dea che forgia l’uomo dal fango (uomo da humus) e lo possiede per tutto il tempo della sua vita destinandolo - per riprendere le parole di Heidegger - a “quel modo d’essere che domina da cima a fondo la sua vicenda temporale nel mondo”.



Sappiamo che i problemi affrontati in medicina e nelle scienze biomediche richiedono risposte concrete circa i diritti delle persone coinvolte e i modi di allocazione delle risorse. Se si vuole evitare il rischio di una ‘dittatura degli esperti’ - e qui la bioetica si apre alla “biopolitica” - è necessario che siano adeguatamente rappresentati tutti gli attori sociali coinvolti: perché le scelte legislative siano rispettose della libertà di tutti - valgano come esempi negativi la famigerata legge 40 sulla procreazione assistita o la scandalosa mancanza di una legge sul ‘testamento biologico’- occorre che siano ben visibili le implicazioni delle ricerche, i valori in gioco, i costi e i benefici. In molti stati europei si sono approntate conferenze periodiche rivolte alla cittadinanza per diffondere informazioni e attivare il dibattito pubblico sui più rilevanti temi della bioetica. Non così nel nostro. A questa carenza il nostro Istituto ha cercato di porre rimedio organizzando ogni anno una Conferenza Nazionale per le Scuole in modo di fare della bioetica una parte essenziale della cultura delle giovani generazioni per prepararle a maturare una coscienza critica e, quindi, ad assumere decisioni consapevoli. Solo così sarà possibile lavorare per attuare quella ‘democrazia cognitiva’ in cui la conoscenza diventi la base sicura per un’etica della responsabilità condivisa.

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