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Intervista di Alessia Mocci a Paolo Maria Rocco: I Canti e Virginia, o: Que puis-je faire?

Intervista di Alessia Mocci a Paolo Maria Rocco: I Canti e Virginia, o: Que puis-je faire?

Paolo Maria Rocco è nato a Napoli, e risiede a Fano

Mercoledi, 20/07/2016 - “Sul senso di una vita, e sulla natura/ scanzonata degli dei, venivi inconsapevolmente/ occupata da interroganti pensieri, e di viventi/ da una moltitudine, dal mondo/ fuggitivi. Per cui anche tu poi sei partita/ dalla strada diversamente assorta/ e come rinsavita. La tua resipiscenza// [...]” - "I Canti"

Paolo Maria Rocco è nato a Napoli, e risiede a Fano. Laureato in Lettere moderne esercita ben presto la professione del giornalista (“Il Giorno di Milano”, “L’Eco di Bergamo”, “Il Resto del Carlino”, ecc.). Nella sua carriera si citano collaborazioni con Università, pubblicazioni di libri di poesie e saggi di critica italiana, curatore di mostre con nota critica in catalogo, insegnate di Letteratura italiana.

Nel dettaglio, oggi prenderò in considerazione due pubblicazioni edite da Bastogi Libri “Virginia, o: Que puis-je faire?” (2014) e “I Canti” (2015). Sperando che l’incipit abbia instradato il lettore nella curiosità di conoscere le complessità poetiche di Paolo Maria Rocco, vi lascio alle sue parole.



A.M.: Ciao Paolo, ti ringrazio per avermi concesso questa intervista e non ti nascondo che ho sbirciato sul tuo curriculum scoprendo che sei nativo di Napoli, ma che hai frequentato l’Università di Lettere ad Urbino con successivo perfezionamento a Firenze. Ora sei insegnante di Letteratura e Storia nelle scuole superiori e, alle spalle, hai una carriera da giornalista e scrittore. Come mai il giornalismo?

Paolo Maria Rocco: Anch’io ringrazio te, Alessia, e Oubliette, per questa opportunità. In verità le due attività di cui parli le ho cominciate abbastanza presto e le ho continuate. ‘Alle spalle’, quindi, ho un po’ di esperienza, diciamo. Attualmente, riguardo al giornalismo, collaboro con il quotidiano online Altrogiornalemarche diretto da Elpidio Stortini. Il giornalismo è, ed è stato, per me, uno strumento importante che ho sviluppato insieme alla scrittura letteraria: ho cominciato come cronista da quando facevo l’Università, a Urbino, attraverso una emittente radiofonica, Controradio93, che ho fondato insieme a mio fratello Claudio e ad un gruppo di cari amici urbinati e non. Controradio mi ha condotto al giornalismo ‘parlato’ e alle inchieste: il giornalismo è mettere in grado il lettore di conoscere attraverso l’informazione non compiacente e non alterata, è incidere sulla realtà quotidiana porgendo notizie e informazioni utili a discernere sui fatti della vita per decidere, deliberare. Per un certo periodo è diventata la mia occupazione lavorativa principale, mentre contemporaneamente percorrevo le tappe obbligate per lasciare aperta la strada dell’insegnamento, qualche supplenza, concorsi, poi l’insegnamento come docente a contratto per l’Università, partecipazioni da relatore a qualche convegno… e nel frattempo scrivevo e pubblicavo su rivista e libri, poesie, traduzioni… Successivamente il giornalismo scritto -per La Gazzetta di Pesaro e di Ancona, inizialmente, e poi per Il Giorno di Milano, L’Eco di Bergamo, Il Resto del Carlino e altri organi di stampa- mi ha concesso di diventare giornalista professionista nell’Ordine delle Marche… E poi sono entrato stabilmente nella Scuola superiore. Comunque, l’essere diventato professionista avendo superato un difficile Esame di Stato mi dà qualche opportunità.



A.M.: Un anno e mezzo fa hai pubblicato "Virginia, o: Que puis-je faire?" edito da Bastogi Libri. Ho notato che viene definito spesso un romanzo musicale, ci puoi spiegare il perché?

Paolo Maria Rocco: Prima del romanzo“Virginia: o: Que puis-je faire?” vorrei dire che ho pubblicato poesie in alcune riviste specialistiche, tra le quali “Hortus” diretta dal poeta Eugenio De Signoribus, e “Marka” diretta dallo scrittore Clio Pizzingrilli. “Virginia...” è il mio primo romanzo e la definizione di romanzo musicale lo devo ad Anna De Concilio, critica letteraria che ha fatto risaltare, nell’intreccio tra struttura della narrazione e concetti trattati, una costruzione da spartito, appunto. La Musica è uno dei temi centrali del romanzo, il pattern, a partire dalla protagonista Virginia e da alcuni episodi che ritengo esemplari della vita straordinaria di Guido d’Arezzo (l’inventore, come si sa, della notazione musicale) la cui esperienza, nel romanzo ambientato nella nostra epoca, gioca un ruolo fondamentale.



A.M.: Come mai questo interesse verso la Musica?

Paolo Maria Rocco: Perché è un leitmotiv nella mia vita: mio nonno Gaetano era pianista e compositore, apprezzato anche da Toscanini che gli aveva chiesto di far parte della sua Orchestra, negli Usa, ma lui ha rinunciato per stare vicino alla famiglia; a Urbino è stato Direttore della Cappella Musicale del S.S. Sacramento e della sua Orchestra, e ha lasciato molte belle composizioni, sinfonie, musica da camera che sono conservate ancora lì. Altri parenti suonavano, le zie Giovanna (violino) e Lea (pianoforte), lo zio Italo, detto Bebé (pianoforte) che con il suo gruppo di musicisti ha girato il mondo con successo tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, e poi altri miei famigliari hanno preso questa strada, come mia sorella Alberta, flautista e pianista, diplomata al Conservatorio “G.Rossini” di Pesaro. Io, ho preso e continuerò a prendere lezioni di pianoforte, anche se è molto difficile conciliare tutto… Questo per dire che non è casuale il mio interesse verso la musica. Credo che una delle chiavi di lettura per capire la storia di Virginia, giovane musicista e compositrice del Nord America (luogo in cui è ambientata parte del romanzo), si rilevi nelle parole di Elisabeth, musicologa, personaggio importante nella narrazione, proprio quando parla del rapporto nuovo di Virginia con il suo pubblico: “Virginia ha rinunciato a esercitare il suo potere seduttivo, anzi, gliene ha rivelato un altro ma… se privi qualcuno dell’incantamento al quale vuole asservirsi, essendosi preparato esattamente per questo e, per di più, avendo pagato anche il costo di un biglietto d’ingresso…”. In questo modo Elisabeth rimarca il gesto di verità di Virginia nel quale sta una parte del significato della storia: una giovane donna che ribalta un ordine precostituito nella consapevolezza che opporsi ai conformismi, alle convenzioni sociali (privare qualcuno dell’incantamento) significa anche attirarsi mugugni -nel migliore dei casi, altrimenti proteste e contestazioni, come accade alla protagonista-, squarciare un velo di ipocrisia, mettersi di fronte a se stessi senza alibi, e conquistarsi, attraverso un percorso non semplice, uno spazio di libertà come ha ben compreso Flavia Liotti nella Postfazione. È una allegoria, insomma, della Vita, di un certo tipo di Vita (ma questo sarà il lettore a scoprirlo), la storia di una scelta dettata da un certo sentimento dell’esistenza che impone un discrimine. E anche in ciò vi è un rapporto non solo con Guido d’Arezzo -che, monaco nell’anno Mille, ha sconvolto un ordine pagandone per molto tempo le conseguenze- ma anche con altre personalità della Cultura di ogni tempo (alle quali ho dedicato spazio e ruolo significativi nel romanzo) che hanno condotto una esistenza sopra le righe e, ognuno di essi, lasciando l’impronta, indelebile, del proprio genio nonostante tante e anche gravi avversità. Il romanzo è costruito come una storia nella storia, in una struttura ad incastro e dall’andamento circolare nella quale sono presenti flash-back, accelerazioni, pause di riflessione, ritmato dagli episodi della ricerca della parte mancante di un antico breviarium musicale (un impegno condotto da Virginia nella consapevolezza che ciò la disporrà ad un percorso di conoscenza interiore, ma che non costituisce la vera impresa che lei affronterà e della quale lascio la scoperta al lettore), e dai luoghi in cui si svolge la narrazione, tra i quali il Monastero marchigiano di Fonte Avellana (nel quale ha soggiornato Guido d’Arezzo) e il Maine. Anche la ‘storia’ del breviarium è una storia di conflitti e armonie… ma non voglio dire di più su questo Codice così conteso perché credo nel piacere della lettura che porta anche a scoprire episodi dei quali si è perduta del tutto la memoria purtroppo… E poi ho curato –anche attraverso il rilievo che ho voluto dare alla funzione dialogica- che fossero ben rilevate le corrispondenze tra gli stessi luoghi e gli stati d’animo dei personaggi… non meno importante la storia d’amore di Virginia e lo scarto narrativo che interviene alla conclusione della narrazione, che si può definire anche ‘colpo di scena’… per questo anche Salvatore Ritrovato, poeta, critico letterario e docente universitario, ha parlato di “Virginia” come di una narrazione tra le più interessanti nel panorama della narrativa contemporanea, e gliene sono grato.



A.M.: Confermando Bastogi Libri, qualche mese fa vede la luce un’opera intitolata “I Canti”. Quando nasce la tua passione per la poesia e a quale tipologia di scrittore pensi di appartenere? Sei maggiormente poeta o scrittore?

Paolo Maria Rocco: Scrivo poesie da quando ero al Liceo. E non ho mai smesso di farlo. Non dico nulla di nuovo se affermo che scrivere poesie dispone ad un lavoro intenso, disciplinato e severo, ma non potrebbe essere altrimenti. Deve essere così. E questo suggerisce a quale ‘tipologia di scrittore’ –come mi chiedi- io appartenga insieme a non pochi altri che concepiscono la scrittura in versi non come una vocazione, una missione, ma come un’arte che ha delle regole, come tutte le arti che, se si vuole coltivare, si deve innanzitutto rispettare dotandosi, preliminarmente, degli strumenti idonei a capirla, a cominciare dal dato, per esempio, costituito dal valore polisemico della parola poetica, del suo potere evocativo, del simbolismo... In questo senso, ma non solo, la cosiddetta ‘semplicità’ (concetto che, mi sembra oggi mal compreso guadagni molti adepti) non è il metro di giudizio di una buona o di una cattiva poesia: la ‘semplicità’ in Poesia non vuol dire, come spesso accade, faciloneria, sciatteria della lingua e dello stile con inevitabile depressione e mortificazione del significato. Al contrario, la poesia è complessità, tant’è che la comprensione di una poesia non può mai fermarsi ad una lettura di superficie (che può far piacere perché magari si orecchia una certa cadenza o si è colpiti da una particolare immagine), si deve cercare di capire perché l’autore abbia messo una parola proprio in quel punto del verso e non in un altro, perché proprio quella parola e non un’altra, quali rapporti quella parola intrattiene con la parola che la segue o con quella che la precede, e un verso con l’altro, e con l’insieme del componimento, e le figure retoriche, e il ritmo e la musicalità del verso, e tante altre cose che si imparano, col tempo e con la dedizione e lo studio… sto parlando dello stile, anche, e della ricerca dello stile, importantissimo in poesia come in prosa. Quella cosa, lo stile, che faceva dire a Luois-Ferdinande Celine: “Quel che conta è lo stile, e allo stile nessuno vuole piegarvisi. Richiede un enorme lavoro, e alla gente non piace il lavoro (…) Senza del lavoro non puoi fare molto… c’è l’eloquenza naturale, beh è davvero nociva, l’eloquenza naturale, veramente nociva. Bisogna che la cosa tenga sulla pagina. Per tenere su una pagina serve uno sforzo grandissimo. (…) Questo stile è un certo modo di forzare le frasi, a farle uscire leggermente dal loro significato abituale e poi di scardinarle, per così dire, di spostarle e forzare così il lettore stesso a spostare il suo senso (…) Questo richiede enormemente del distacco, della sensibilità; difficilissimo da farsi perché bisogna girarci attorno… Attorno a cosa? Attorno all’emozione (…)”.



A.M.: Lo stile come organizzazione formale dell’emozione?

Paolo Maria Rocco: In un certo senso, come sua elaborazione nella scrittura letteraria. Questo dovrebbe convincere anche dell’importanza, non sempre riconosciuta, dello strumento linguistico che utilizziamo. Quando Georges Bataille dice che la poesia non serve a fare rivoluzioni poiché può solo ribaltare l’ordine delle parole, non dice una battuta ma qualcosa che riguarda lo statuto stesso della poesia, la rivoluzione non è quella comunemente intesa dai ‘rivoluzionari di professione’ ma, per esempio, la consapevolezza dell’autonomia del linguaggio utilizzato a fini estetici, della baudelariana magia evocatrice della lingua poetica, della compresenza di più livelli di significato, della assunzione di una realtà altra che ci porta poi al rilievo del ‘non-detto’, dell’implicito, del presupposto che impone, da parte del lettore, la capacità di integrazione del senso… ciò che troviamo anche, variamente trattato, nelle teorie dei formalisti russi, degli strutturalisti, di Jakobson, di Umberto Eco, o di Agamben che sostiene “Non c'è poesia senza pensiero, così come non c'è pensiero senza un momento poetico” poiché “filosofia e poesia non sono due sostanze separate, ma due intensità che tendono l'unico campo del linguaggio in due direzioni opposte: il puro senso e il puro suono”, o ancora Agosti, Saussure e tanti altri non meno importanti… Per chi scrive con la consapevolezza di ciò che si sta facendo, quindi, non credo possa avere asilo la distinzione tra scrittore di poesie e scrittore di narrazioni (quando non ci si riferisca esclusivamente alla struttura della forma), o, men che meno, l’avere la cognizione di sè come poeta o come narratore. Si può essere l’uno o l’altro, o entrambi nello stesso tempo, per molti validi motivi (quando di essi si accerta la presenza).



A.M.: È pratica di taluni dedicare il proprio libro a qualcuno per svariati motivi, quali per esempio una forte emozione che lega i due, od un aiuto importante, o solamente una citazione. “I Canti” è dedicato ad Alfredo e Vera, ci racconti chi sono?

Paolo Maria Rocco: Io lo considero un omaggio. Alfredo e Vera sono i miei genitori. Ai quali devo l’amore per le cose belle, vere, quindi, grazie alla cura che hanno avuto nel crescere ed educare noi figli in un ambiente sano e nel metterci a disposizione, fin da piccoli, insieme ai giocattoli e ai tanti momenti di divertimento puro, anche molti libri la cui lettura abbiamo vissuto come un divertimento e un piacere… diverso. Siamo stati fortunati come credo lo siano molti per ragioni analoghe. E, in seguito, la biblioteca si è arricchita sempre di più. Ti sono grato per questa domanda perché mi dà l’opportunità di dire qualcosa dei miei genitori, e di ringraziarli. Mio padre, che ha sempre coltivato un interesse costante e anche specialistico per la Cultura, negli ultimi tre anni della sua vita ha occupato il suo tempo dedicandosi, da autodidatta, alla traduzione dallo spagnolo di quattro romanzi di Benito Pérez Galdόs (La de Bringas, Tristana, Tormento, Fortunata e Jacinta): poi Carlo Bo, con l’acume di studioso e l’intelligenza che gli erano propri, ne ha scritto molto lusinghevolmente, dedicandogli una pagina intera nel settimanale Gente sul quale teneva una rubrica sulla Letteratura. Prima ancora scrisse un bel saggio sulla medicina omeopatica (uno dei suoi interessi) in “Agorà – Trimestrale su Natura e Società, Linguaggio e Cultura”. Mia madre è stata una valente e apprezzata ceramista d’arte, a Urbino, una delle capitali della ceramica d’arte e poi a Napoli, per un certo periodo. Oggi, è un’accanita lettrice di romanzi, di biografie e una instancabile compilatrice di cruciverba! Insomma, un ambiente propizio per favorire certi piaceri, corroborati dai racconti dell’infanzia dei miei genitori: di quando mio padre visse in Eritrea (mio nonno paterno, Alberto, era un ufficiale dell’Esercito italiano durante la Seconda Guerra) in un ambiente per molti versi ostile, selvaggio ma anche esotico, affascinante nei suoi ricordi, o quando mia madre e la sua famiglia nascosero un ufficiale inglese in casa, a Gallese (cittadina laziale ove abitarono per diversi anni), mentre c’erano i tedeschi che si erano impossessati di tutti i locali del pianoterra per insediarvi una postazione radio che manteneva i collegamenti con le truppe comandate da Kesserling e acquartierate sul vicino monte Soratte… o ancora quando, sempre tra il 1943/44, furono ‘visitati’ nella loro abitazione da alcuni soldati Polacchi in ritirata perché stavano arrivando gli Alleati; ci racconta di come chiedessero, nonostante fino a poco prima occupanti, che mio nonno suonasse per loro musica classica insieme alle mie zie, e che mentre ascoltavano piangevano e applaudivano e si asciugavano le lacrime chiedendo di suonare ancora… E di tanti altri episodi vissuti nell’immediato Dopoguerra… E poi devo sottolineare la presenza dei carissimi nipoti, dalla più piccola al più grande d’età: Aurora, Caterina, Ettore, Guglielmo.



A.M.: Cinque Tempi, un intermezzo ed i sonetti. Come nasce la struttura de “I Canti”?

Paolo Maria Rocco: In realtà credo che la cosa più difficile per chi scrive poesie sia parlare delle proprie, così come leggerle in pubblico. Per questo anche rimando alla lettura della Prefazione ai “Canti” curata dallo studioso Al J. Moran che ha evidenziato con una bella lettura critica gli aspetti più significativi della mia raccolta di poesie. “I Canti” sono una selezione di poesie scritte in un sensibile arco di tempo, fino ad oggi. Non ho assegnato, però, un ordine esattamente cronologico alle poesie perché il ‘discorso’ si alimenta di rimandi, di connessioni, di approfondimenti di temi, e di sperimentazioni formali come accade quando è in gioco una visione del mondo per le quali l’autore ingaggia un vero ‘corpo a corpo’ con la lingua, innanzitutto, e con il significante e il significato quindi, con il dispiegarsi dell’esistenza ‘qui e ora’, con quanto di universale essa può testimoniare anche nel patrimonio acquisito di storia, sentimenti, informazioni, pensieri, concetti... Da qui anche la decisione di distribuirle in sezioni che costituiscono i Tempi, appunto, dell’elaborazione più che dello sviluppo diacronico, quindi, dei temi che affronto.



A.M.: La poesia ne “I Canti” diventa l’atroce verità dell’Io. Il mondo immaginario si interfaccia così con i desideri o pulsioni più celate. Cosa nasconde questa tua opera?

Paolo Maria Rocco: Perché ‘atroce’? A ben vedere credo non sia atroce alcuna verità… Mi permetti una citazione? William Blake diceva che “la verità risiede nel cuore umano, perché nel cuore dell’uomo sono bene e male, innocenza ed esperienza, purezza e corruzione, cielo e inferno”. Tutti siamo fatti di tutte queste cose. È certo che ci colpiscono i fatti della vita quotidiana o del ‘vissuto’, fatti atroci anche, ma non è di questo che stiamo parlando, vero? L’Io, poi, non mi sembra possa essere accompagnato da sostantivi (o aggettivi) che lo qualifichino: non può esserci una verità dell’Io come non può esserci una falsità dell’Io. E poi la Poesia non è portatrice di verità, la Poesia interroga, pone questioni e si interroga, e può farsi anche assertiva, e se ambisce alla verità lo fa dal luogo di un dialogo ininterrotto dell’uomo con se stesso, con gli altri, con la natura, con la storia, con il mito, con la creatività. Riguardo alle pulsioni e ai desideri, la questione è davvero importante, ed è filosofica, bisognerebbe interpellare Platone, per esempio… Il professor Gianni Scalia (tra i fondatori di Officina con Roversi e Pasolini), che voglio citare perché è uno studioso tra i più importanti sulla scena contemporanea –e che ho avuto l’opportunità di conoscere personalmente- ci ricorda che il demone platonico del Simposio è mancante e desideroso del bello e del bene, “Desiderio, insomma, di ciò di cui manca e a cui aspira; la tensione e l’ascesa lo guidano a un compimento, se nel Fedro la reminiscenza come conoscenza di una “vita anteriore” prima di una caduta e di un oblio, una memoria originaria accende l’anima, ad essa mette le ali”. Ecco, io ‘pulsioni’ e ‘desideri’ li intendo in questo senso e sono proprio di questo… nodo… e di questa ascesa che dicono le mie poesie. Per questo Al J. Moran nell’Introduzione esordisce sottolineando che «Non eravamo in pochi a essere convinti che non ci fosse più un tempo per il pensiero poetante –forma poetica del pensiero forte- certi quanto meno dell’eterogenesi dei fini poetici. Ora una poesia nuova induce a ricrederci e ad ammettere che invece c’è un tempo ancora per la poesia della opposizione aperta e dichiarata al mondo». Quando si parla di ‘verità’, quindi, è nell’accezione di ricomposizione mitica tra finito e infinito, riconciliazione degli opposti che contempli il cuore degli uomini, perché è nella contraddizione costituita da quella tensione che acquistano senso libertà e creatività: «Alla verità la poesia resta invece fedele –continua Al J. Moran nell’Introduzione- alla possibilità di attingerla nell’intermondo di cui scriveva Hölderlin, tra le dimensioni del divino e dell’umanità, dove si trova il poeta. La chiama in causa la verità, depositata nelle informazioni e nella storia che l’anima raccoglie in forma inconscia restando in attesa di restituirla. Soltanto la reminiscenza dei fatti che l’esperienza vissuta trasforma in esistenza psichica, può cogliere in quelli la verità formatasi al contatto tra ciò che percepiamo in noi durevole oltre noi stessi, e la sostanza individuale, per ridestarla e portarla in superficie. Avviene nei momenti della reminiscenza che le idee eterne che esistono in ogni uomo si disvelino tornando a vivere in forma intuitiva, per immagini rivelate, le sole in grado di aprire lo spazio del significato dentro la realtà presente immemore di sé. È questione di fede. Nei Canti le cose accadono su un piano verticale, tra cielo e terra. Il poeta non prova l’ipocrita vergogna di riconoscere che il patrimonio di verità dormienti in ciascuno è quel che rende all’uomo la sua sacralità». Una tensione verso l’ “uno”, verso l’armonia, che non può essere allora se non azione della bellezza e dell’amore. Da tutto ciò l’orfismo dei miei componimenti sottolineato da Moran (nel suo rilevare anche la mia operazione sul linguaggio e i luoghi della mia ricerca), e che –in estrema sintesi- non è soltanto il riconoscere noi stessi nati dalla cenere dei Titani, di una materia che imprime in noi il bene e il male, ma nella tensione, che è ideale etico, a ridestare e a far vivere quella parte di divinità, di sacro, che è in ciascuno.



A.M.: Che tipo di letture ti affascinano?

Paolo Maria Rocco: Tutte, Alessia, a cominciare da tutte le letterature ‘classiche’ (italiana, russa, inglese, spagnola, dell’Est…), e poi, riguardo alla letteratura contemporanea, dando per scontata la selezione che si deve fare tra un Autore e l’altro, leggendo quelli, e sono tanti, che ritengo di valore. Poesia, narrativa, saggistica, filosofia, teatro. Insomma, leggo molto, mi piace. In questo periodo sto leggendo due libri di tutta evasione, diciamo: racconti dei Narratori meridionali dell’Ottocento e poi Il venditore di storie di Jostein Gaarder, norvegese, un libro datato ma che non avevo ancora letto. Ma poi mi fermo e prendo Rilke o Leopardi, oppure Campana, Saba, Sereni, D’Annunzio, Pascoli, Hölderlin, Heine, Baudelaire … e poi continuo… e includerò Gozzano che voglio leggere con più attenzione…



A.M.: Questa estate sarà ricca di presentazioni ed eventi oppure di relax e riposo, magari un po’ distanti dal pc? E poi: ci sono novità editoriali che ti riguardano?

Paolo Maria Rocco: Farò una presentazione dei “Canti”, qui nelle Marche (sarà la seconda) e poi a Settembre a Firenze, per “I Canti” e per “Virginia”. Ma soprattutto scrittura. E poi sto preparando, con altri due amici professori, un Convegno che si terrà a Settembre o Ottobre per la scuola nella quale insegno. Riguardo alle novità editoriali, non posso parlarne per il momento.



A.M.: Non ti chiedo ora di salutarci con una citazione, come faccio, a volte… ma… se, invece, tu ci regalassi una tua poesia?

Paolo Maria Rocco: Lo faccio con piacere! Per ringraziare te e quanti leggeranno vi saluto con una poesia tratteada “I Canti”, a presto…!

“Tu lo percepisci il repentino mutamento/ dello sguardo che acquista una garanzia/ sulla realtà evocata. Qualcosa di noi/ in fondo rimane isolata nella stanza (una misura/ dislocata, una discordanza tra noi/ già investigata, impervia, di quota/ non elevata). Dove non passa ti dico/ inosservata la dilatazione nel buio/ della pupilla e una deambulazione/ soffocata rimette in allarme/ i sensi. Ti sei ancora una volta impegnata// A ricostruire connotati nel solaio (si comprenda/ la condizione del cuore inviolato, e il profilo/ plausibile del tempo, com’è al tatto/ angusto) com’è sempre sottoposto, al soldo/ dell’ignoranza dei giorni. Sopravanza lo stupore/ di un sentimento ammaestrato un riflettore/che abbaglia: ci sorprende/stagliati dall’alto come vorremmo essere/ritratti, in ansia sull’impiantito/e sopraffatti destinati a fare/di queste masserizie un solo fuoco”





A.M.: Paolo grazie per questi tuoi profondi versi! Ti saluto e consiglio ai nostri lettori di acquistare “Virginia, o: Que puis-je faire?” e “I Canti” direttamente dalla Bastogi Libri, in alternativa è possibile acquistarli in libreria oppure online su Amazon, Ibs, Mondadoristore (etc). Riporto la parte conclusiva dell’incipit del Primo Tempo “I Canti”:

“Era già stata umana, del mondo che rimase/ noncurante di te l’intuizione - prevalse nelle sue mani/ operose un’inquietudine premonitrice, un particolare/ esorbitante, e certo al cielo irrilevante. Del resto/ come dalla postazione cieca tu elevata al mondo divinassi,/ oh anelanti parole l’immensa azzurrità/ per le dolenti figure il magistero tuo mi viene in mente.”



Written by Alessia Mocci



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