Giovedi, 03/05/2012 - Lucia Ravera è autrice di “Le ragazze della scrittura” (Ed Ladolfi, pagg 160, euro 15,00), recensito sul numero di maggio 2012 di Noidonne. Ravera, scrittrice e giornalista letteraria, classe 1970, offre una panoramica ampia ed esaustiva sui percorsi, i temi e la produzione delle donne che scrivono in Italia. Noidonne l’ha intervistata per capire cosa bolle in pentola fra le giovani scrittrici italiane.
La poesia scritta da donne è un terreno vagliato dalla critica e numerose sono le antologie, i saggi critici, i gender studies sulla materia. Al contrario è raro imbattersi in un approccio di genere quando si parla di produzione in prosa. Come nasce questo libro? Vi è l’intenzione di indagare un campo ancora poco esplorato?
La poesia, complice il carattere “intimo” che evoca, è un territorio “riconosciuto” all'espressione artistica femminile. Non si può effettivamente dire altrettanto, quando a essere chiamata in causa è la prosa (eccezione fatta per i generi autobiografico-diaristico).
Partendo dal presupposto che la qualità di un'opera non debba vantare radici sessuate, mi è parso interessante indagare sulla marginale attenzione rivolta alla scrittura delle donne, e in particolare alla loro produzione narrativa.
Oggi in Italia le donne scrivono tanto quanto gli uomini. Molte autrici sono, oltretutto, giovanissime. Un traguardo, se consideriamo che, ancora al principio del secolo scorso, al così detto gentil sesso erano vietati i più elementari diritti civili, tra cui l'istruzione, esclusivo appannaggio virile.
Detto ciò, a ben osservare, intorno alla letteratura femminile continuano a risuonare fastidiosi rumori di fondo, che cristallizzano la scrittura entro un pregiudizio di lungo corso: oggi avvertibile nella ghettizzazione della definizione “letteratura al femminile”, ieri riscontrabile nelle incaute esternazioni di quella parte della Critica, secondo cui alle donne sarebbe stata affidata la patria dei sentimenti, del sussurro degli affetti, ma la vera letteratura è quella che celebra l’intellectus, prerogativa maschile. Ergo, la letteratura femminile è minore, quella maschile, peraltro ufficializzata è, e basta.
Con questo peccato di superficialità, le nostre Lettere hanno smarrito nei secoli voci di Muse straordinarie, escludendole aprioristicamente dalle Storie della Letteratura e dai Giudizi di merito che ad esse sarebbero dovuti legittimamente spettare. Recuperare i nomi, stilare un elenco con parsimonia e dovizia critiche, sarebbero cose auspicabili, cui i nostri valenti studiosi e Professori potrebbero finalmente dedicarsi.
Il mio piccolo lavoro si è invece concentrato sulla contemporaneità. Ho passato in rassegna una cospicua rappresentanza di autrici appartenenti al nostro tempo. Esplorando i differenti approcci al testo, i temi affrontati, le urgenze letterarie condivise, mi sono via via resa conto di quanto la scrittura, per le donne di oggi, rappresenti un indispensabile strumento di consapevolezza sociale, attraverso il quale è possibile, forse, scorgere nuovi alfabeti con cui interpretare la vita, accordandole, quanto meno, l'opportunità di uno sguardo alternativo.
In questo libro si parte dal corpo e si finisce per gettarsi nell’abisso del pozzo, al fondo di sé e della propria condizione di essere donna. Nel mezzo vi è la famiglia, la maternità, i rapporti con l’uomo, con l’infanzia, con la società; uno spettro di situazioni a tratti desolante, sintomatico di una crisi. Cosa ci dicono le scrittrici contemporanee? Dove stanno andando?
Il corpo e gli abissi del pozzo, come i temi della famiglia, della maternità, della latitanza maschile, del mondo dell'infanzia, appartengono alla scrittura femminile di sempre. Non è un caso ritrovare nei romanzi e nei racconti attuali, germi antichi di un sentire comune, direi universale alle donne.
L'oralità, ovvero il sapere delle parole “materne”, tramandate di generazione in generazione, a rammentare una delle specificità di questa letteratura, si abbina però anche a degli scarti semantici e di contenuto, che sono indice dello stato vitale della produzione narrativa, cui partecipano le nostre giovani scrittrici.
Cosa ci dicono? Intanto ci informano su ciò che le donne sono e rappresentano oggi, secondo un immaginario inedito che è, appunto, quello delle dirette interessate. Questo significa che ci troviamo sovente di fronte al crollo inevitabile di quelli che sono stati gli stereotipi entro i quali l'identità femminile è stata ingabbiata.
Nelle pagine delle nostre romanziere non troveremo angeli del focolare o, per contro, Eve sataniche. Non troveremo neanche campionari di femmes fatales. Semplicemente, anzi, molto più complessamente, ci sarà dato di incontrare donne che, sfondando resilienti tabu (la vecchiaia, la morte, per fare due esempi), raccontano quel che resta da dire della vita, e ci trasportano, talora sorprendentemente, nell'indomabile vertigine del jamais dit.
Un azzardo, che a volte, dà l'impressione di uno sfasamento nella tragedia reale. Non è così. Ho provato a spiegare perché, introducendo nell'ultimo capitolo, provocatoriamente, l’ombra di un'epica femminile. Epica. Femminile? Proprio, sì.
Occuparsi di letteratura delle donne sottende il rischio di un’implicita (auto) ghettizzazione, quasi che le donne che scrivono debbano considerarsi come un sotto genere distinto rispetto alla categoria generale, maschile, degli scrittori. Allo stesso tempo è operazione necessaria per rimuovere silenzi e ristabilire equilibri. Ti sei posta questi problemi nello scrivere questo libro? Che soluzioni hai adottato?
Mi sono posta il problema di uscire dalla ghettizzazione che riguarda, tutto sommato, il mondo delle donne tout court, generando spesso il rischio di una contro-ghettizzazione. Pensiamo al caso delle Quote rosa, che si sono rese necessarie per regolarizzare la presenza femminile all'interno dei partiti, come nelle liste elettorali o negli organi istituzionali. Non è un'assurdità? Lo è, eccome, in uno stato di par condicio, dove ci si attenderebbe, semmai, sentire parlare corrispettivamente anche di Quote blu. Il discorso è analogo a quello sollevato in principio, a proposito della letteratura al femminile, che non trova alcun interlocutorio con la facies di una letteratura al maschile.
Le donne che scrivono, non rappresentano un sotto genere rispetto alla categoria maschile, degli scrittori. Il punto è che, come in molti altri casi, sono costrette a dimostrarlo, andando a scomodare gli assetti assodati dei luoghi comuni.
C’è un concetto illuminante, affermato in relazione all’uso del linguaggio di genere nell’italiano, al quale mi sono affezionata e che credo possa essere esteso a qualsiasi approccio alla conoscenza: esiste solo ciò che si dice, ciò di cui si parla.
Le donne hanno molto da dire, ri-dire. E da fare, ri-fare. La strada è ancora lunga, ma molte, in vari campi, si sono prese la briga di percorrerla a nome di tutte. Leggo di bibliotecarie che si impegnano perché sui cataloghi, nelle opzioni di ricerca, accanto alla parola “autore” compaia anche quella di “autrice”. Mi compiaccio quando qualcuno, citando l'alta carica ricoperta da una donna, impiega correttamente la grammatica, chiamandola, per esempio, Signora Ministra e non la Ministro. Si tratta di piccoli, ma significativi passi, che definirei educativi. I rischi di auto-isolamento, le polemiche, i sarcasmi, possono passare in secondo ordine, rispetto alle oggettive emergenze sociali e culturali.
Una delle questioni affrontate negli anni Settanta, soprattutto in poesia, è il rapporto con una Tradizione letteraria nella quale la donna è oggetto di poesia e quasi mai soggetto scrivente. Si hanno dunque molti Padri, ma si è orfane di madri. Cosa pensi di questa affermazione? Come è affrontato il tema dalle scrittrici odierne?
La donna della tradizione letteraria è costantemente oggetto dell'immaginario maschile. I cliché cui ho accennato poc'anzi ne sono un'ampia testimonianza. Quando le donne iniziano a scrivere pubblicamente, si vanno ad affacciare a un mondo prettamente fallocratico, nel quale è evidente non si riconoscano. Scisse nelle due opposte anime femminee, cui sono state condannate (quella angelicata e quella peccaminosa), hanno tentato di spianarsi un sentiero nel quale potessero sentirsi a proprio agio. E così, partendo da ciò di cui avevano maggiore esperienza, -il corpo, l'ambiente domestico, l'intimità degli affetti-, si sono avvicinate alla letteratura, ben coscienti di quanti Padri questa avesse partorito, senza potersi appoggiare a una tradizione “materna”. In questo scenario, le scrittrici hanno abitato le loro opere, con i malgrado del caso, per quasi tutto il corso del '900. Poi è accaduto qualcosa. Le nostre Lettere, a detta della Critica più autorevole, hanno dato segni di cedimento organico. Trapassati i Pavese, i Calvino, i Pasolini, e via andando, di bardo in bardo, siamo rimasti senza Padri (le madri non sono state citate nella dichiarazione di morte della Letteratura). I nostri giovani scrittori non hanno saputo reggere l'assenza e poi il confronto con chi, Immenso, li ha preceduti. A poco sono valsi i tentativi di rinascita promulgati da varie “entità” (come il NIE). La salute della letteratura italiana, senza ormai più Padri, presenta, a quanto pare, un incarnato esangue, compromessa com’è, da una forma patologica appiattente, altamente virulenta.
E le donne? Nel frattempo hanno proseguito sulla loro strada, disseminandola, con pazienza e determinazione, di Madri. Oggi possiamo cogliere i frutti di questa Letteratura, esercitando il dono della Memoria, nella parola di tante Figlie.
Un libro di critica non è mai obiettivo e finisce sempre per proporre un canone. Qual è il tuo canone delle scrittrici contemporanee?
Non ho pensato a nessun canone. Ho riunito un folto gruppo di scrittrici, evidenziando le caratteristiche precipue della loro Letteratura, in un dialogo corale, vivo e non definitivo.
D'altronde, non sono pienamente d'accordo sul fatto che i saggi non siano mai obiettivi. Certamente sono sempre parziali, in quanto trattano tranches di discorsi, altrimenti enciclopedici. Nella parzialità, che equivale a una scelta di tipo selettivo, però, mi pare si possa appurare una certa obiettività, che è l'obiettività di chi scrive. Discutibile, ci mancherebbe, ma contestualmente obiettiva.
La priorità che avevo in mente per Le ragazze della scrittura, era quella di potere offrire un altro sguardo sul nostro panorama letterario. Uno sguardo non in contraddizione. Semplicemente alternativo. E mi auguro di avere raggiunto lo scopo, con ragionevole equilibrio.
In questo saggio si percepisce un tono battagliero, a tratti indignato. Ti sentiresti di definirti femminista? Che cosa è per te il femminismo, o meglio i femminismi, oggi?
Gli amici mi chiamano la pasionaria. L'indignazione, scherzi a parte, c'è. Quando, oltre la Letteratura, parlo di ingiustizie sociali. Di violenza. Di precarietà. Di corpi offesi dai media e vilipesi dalla morale. Di un Paese che difende la Famiglia e non investe nella spesa sociale. Di madri sole, che stringono al ventre un figlio, sentendosi ogni giorno, chissà perché, colpevoli di chissà che.
E' l'epoca dell'indignazione, questa che stiamo attraversando. Le nostre Madri costituenti (e alcuni grandi Padri), chi ha battagliato in un passato anche recente, credo avessero immaginato per noi un presente diverso.
Sono nata nel 1970. Non ho vissuto il femminismo. Sono cresciuta nel rispetto della dignità della persona, coltivando la cultura delle differenze, alla base di ogni società, che possa dirsi civile. A chi accusa ironicamente oggi le donne di essere anacronistiche, isteriche femministe, rispondo pacatamente che c'è un femminismo per ogni forma di maschilismo. La reazione è la conseguenza dell’azione, che si distingue per il suo indebito principio di prevaricazione.
A chi obietta che il femminismo sia sinonimo di estremismo, consiglio un libricino, tanto elementare quanto essenziale, che spiega, attraverso la storia illustrata di tre generazioni, il lungo iter di lotta per l'acquisizione dei diritti delle donne. Si tratta di “Nina e i diritti delle donne” di Cecilia D'Elia. Giusto per ricordare agli smemorati che, solo fino a quarant'anni fa, gli abusi sessuali non erano considerati reato e la violenza sulle donne si poteva risolvere con un bel matrimonio riparatore. Che l'adulterio era punibile con un anno di carcere, esclusivamente se a commetterlo era una donna. Che le prime leggi sulla tutela delle lavoratrici madri risalgono al 1950. Fino al 1949, per intenderci, molte venivano licenziate per il semplice fatto di essersi sposate. Che abbiamo dovuto aspettare il 1976 per vedere una donna in Parlamento (Tina Anselmi, Ministra del Lavoro e della Previdenza Sociale). Che negli stessi anni, esattamente nel 1975 fu approvata la Legge 151, quella conosciuta come il nuovo diritto di famiglia, per cui finalmente si riconosceva la parità tra i coniugi e si sostituì la patria potestà con la potestà dei genitori.
La partita per l'emancipazione dei diritti delle donne nasce prima del femminismo, esplode negli anni del femminismo, che le conferisce una sorta di “universalità” e marcia avanti. Duole constatare che, in molte circostanze, quella delle donne, sia stata una
“giusta vittoria” a tempo determinato. La nostra quotidianità minata, ci suggerisce, quanto mai, un'impellenza aperta di iniquità. Più che di femminismo o femminismi mi piacerebbe, però, si parlasse di “questione femminile”. Con questa bomba inesplosa dobbiamo improrogabilmente fare i conti, in concomitanza e nell’ottica della più vasta e allarmante “questione sociale”.
Oltre che saggista e giornalista sei anche scrittrice. Vi è una relazione fra il tuo essere donna e la scrittura?
Credo che il mio essere donna sia inscindibile dalla scrittura, che mi appartiene, mi rappresenta come fosse una appendice.
E nei libri, romanzi, o saggi che siano, come negli articoli che compongo, le donne sono sempre presenti. Io, probabilmente, in ciascuna di esse.
Dal punto di vista delle politiche editoriali le scrittrici attuali sono discriminate rispetto ai colleghi uomini? Potresti farci qualche esempio?
Direi che oggi a nessuno (né a donne, né a uomini) sia negato pubblicare. A molte scrittrici vengono persino assegnati Premi prestigiosi. La discriminazione, quella valutabile in cifre, se avverrà, si potrà stimare nel tempo. Quando i posteri andranno a leggere le inedite Storie della Letteratura, che i grandi Giudici Sistematori (li chiama così Dacia Maraini) avranno redatto.
Allora si potranno constatare le presenze, le assenze, i nuovi bilanci cultural-epocali e si potrà comprendere se lo spettro del pregiudizio, l’abitudine al non ascolto avranno lo stesso peso e la stessa misura che già abbiamo conosciuto, oppure si saranno evoluti nelle prospettive ambiziose e allargate del confronto.
Lascia un Commento