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Instabili equilibri

Instabili equilibri

Politica/ Intervista a Lilli Gruber - “Sono stata una giornalista al servizio dei cittadini e ora, come europarlamentare, continuerò ad esserlo”

Bartolini Tiziana Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2005

“Ha detto che la metà dei Ministri sarebbero state donne e lo ha fatto! E allora viva Zapatero. Se in Italia vogliamo aprire la strada alle donne nelle assemblee elettive dobbiamo chiedere ai partiti e alla politica, che sono dominati dagli uomini, di avere il coraggio di dare priorità alle nostre competenze e di utilizzare il criterio della proporzione. Solo l’11% di presenze femminili nel Parlamento italiano è una vergogna. Allora basta discutere sulla questione ‘quote si – quote no’. I ‘panda’ e le ‘riserve’ non c’entrano niente. In una società in cui il merito non è di per sé un valore, le quote diventano essenziali. E sia ben chiaro, io penso alle quote non solo nei partiti, ma anche nelle aziende pubbliche e sollecitando pure in quelle private. In molti Paesi hanno scelto questa strada e le cose sono cambiate profondamente. Dunque cominciamo a chiedere impegni precisi alla politica, altrimenti è un parlare a vuoto”.
Intercettiamo Lilli Gruber di ritorno dall’Arabia Saudita, dopo una tappa a Parigi ed in partenza per Bruxelles. Più determinata che mai e presente sulle questioni, delicatissime, di cui si occupa, l’europarlamentare lancia un chiaro messaggio alle donne, che “devono trovare il minimo comun denominatore nell’accordarsi sull’utilità delle quote” perché “ora c’è bisogno di una forzatura, come spesso accade nella storia”. E spiega: “Quando ci saranno degli uomini disponibili a fare un passo indietro per far posto ad una donna riconoscendo le sue capacità, allora potremo fare a meno delle forzature. Ma per ora di uomini così io non ne ho incontrati”. Insomma, niente mezzi termini in quello che deve essere assunto come un obiettivo prioritario, condiviso prima di tutto delle donne. Parola di Gruber, che le ossa se le è fatte nei corridoi di viale Mazzini, insidiosi – con una eccessiva metafora - quasi quanto le periferie di Baghdad, che ha raccontato in diretta in veste di inviata speciale. Oggi l’impegno nell’europarlamento è interpretato con immutata grinta e riconfermato rigore.
Alle recenti elezioni europee ha ottenuto un successo straordinario con oltre un milione di preferenze. Accanto alle sue evidenti capacità professionali e di relazione, a quali altri fattori attribuisce questo successo?
Osservo prima di tutto che il numero di donne che mi ha votato è stato altissimo. Hanno avuto fiducia in me, mi hanno incoraggiata e sostenuto molto, e non era scontato. Il fatto di essere un personaggio noto mi ha indubbiamente aiutata, ma questo elemento, da solo, non basta a giustificare il risultato, come dimostra ad esempio il caso di Cecchi Paone o della Zanicchi.
Sicuramente ha avuto una certa importanza l’appartenenza alla società civile, ma in generale credo sia stata riconosciuta la serietà con cui ho fatto il mio lavoro sui teleschermi per venti anni, che ha significato costruire un patrimonio di credibilità. Come ho dimostrato capacità d’autonomia nel giornalismo, così la candidatura indipendente è stata un elemento forte. Nella mia campagna elettorale, poi, ho focalizzato l’attenzione su temi in merito ai quali ho una diretta competenza: la libertà d’informazione, la politica estera, l’Iraq e questioni di fondamentale importanza come la pace e la guerra.
La politica italiana e i partiti appaiono lontani dal paese reale. Perché?
I partiti sono essenziali per la democrazia e sono fondamentale cinghia di trasmissione tra politica e società civile. Ciclicamente attraversano momenti di crisi nei rapporti con l’elettorato e con la società. Talvolta, come in questa fase, la loro immagine appare più opaca a causa, probabilmente, della necessità di gestire questioni più interne o passaggi delicati. A questo si aggiunge il problema del linguaggio, troppo spesso incomprensibile anche per una mancanza di chiarezza di posizioni.
Nel suo ultimo libro 'L'altro Islam' lei afferma che vive il suo attuale impegno politico in continuità con il precedente impegno professionale. Ci spiega che intende per ‘continuità’?
Per vent’anni sono stata una giornalista del servizio pubblico a servizio dei cittadini e ora come europarlamentare continuerò a essere a servizio dei cittadini. Non smetterò mai di essere giornalista perché è un modo per avvicinarsi alla realtà: la curiosità, la sete di conoscenza non ti abbandonano mai. Inoltre ritengo che questo sia un dovere anche per chi fa politica, se si vuole davvero intervenire sulle questioni con competenza. E’ vero che il buon giornalismo, come la buona politica, può fare la differenza, ma certo la politica ha il dovere di tradurre le parole in fatti.
Perché scrivere dell’Islam ed approfondire in particolare la realtà sciita?
Sono convinta che bisogna conoscere la realtà per combattere l’ignoranza che genera la paura. Uno dei motivi che mi ha spinto a scrivere di Islam, infatti, era il voler continuare a raccontare l’Iraq, ed in particolare quella che oggi io definisco ‘la seconda puntata della guerra’. L’obiettivo è cercare di spiegare ad un pubblico più vasto il misterioso mondo dei musulmani sciiti, che sono minoranza nel mondo islamico ma sono maggioranza in due Paesi cruciali in Medio Oriente, l’Iran e l’Iraq, che sono tra l’ altro ricchissimi di petrolio e di risorse energetiche. Purtroppo non siamo riusciti ad evitare la guerra in Iraq, ma dobbiamo assolutamente scongiurare una guerra di religione, uno scontro tra civiltà: sarebbe devastante. Quindi il mio contributo, di sghembo il libro, è lo sforzo costante di restituire la memoria, la conoscenza e riuscire a contestualizzare gli avvenimenti di attualità per comprenderli ed interpretarli cogliendone tutta la complessità.
Lei non risparmia critiche agli Stati Uniti per gli errori commessi nella vicenda irachena. A suo parere le elezioni in Iraq, il loro svolgimento e l'esito finale rappresentano una vittoria della politica di Bush oppure più semplicemente la ragionevolezza degli iracheni?
La realtà in Iraq non è quella che ci raccontano Bush e Blair. Purtroppo siamo succubi della propaganda americana, e non solo. Deve essere chiaro: mi inchino davanti ai milioni di iracheni che sono andati al voto rischiando la vita. So quanto fosse importante per loro quel momento, ma bisogna tener presente che le elezioni di per sé non possono risolvere il complesso problema iracheno. Possono aprire una fase politica diversa che può portare verso un processo di pacificazione, ma sarà comunque un percorso lungo e tortuoso. Io diffido delle verità ufficiali e giudico in base alle realtà sul campo: è evidente che l’Iraq è un paese senza ordine e sicurezza dove in vaste aree continuano a mancare luce, acqua e gas. Le elezioni hanno messo in evidenza una forte tendenza della società irachena a dividersi per linee etnico-religiose. Ricordo inoltre che le votazioni del 30 gennaio si sono svolte senza osservatori internazionali e che lo stesso Parlamento europeo, sollecitato da me assieme ad altri colleghi, ha sostenuto che mancavano le condizioni minime di sicurezza affinché fossimo presenti. Ora, oltre al confessionalismo, resta preoccupante l’esclusione dei sunniti e il sovradimensionamento politico dei curdi che hanno ottenuto il 25% dei seggi pur costituendo il 20% della popolazione. Accanto a questi fattori vi è poi la sconfitta di Allawi, il primo ministro iracheno voluto e sostenuto dall’America. In questo scenario le prime questioni che il nuovo governo dovrà affrontare saranno: la presenza delle truppe straniere sul territorio iracheno, la natura dei rapporti tra Costituzione e Corano, il tasso di federalismo del futuro Iraq. Come è noto i curdi rivendicano la propria automomia, gli sciiti credono in uno stato centrale forte mentre i sunniti restano una mina vagante.
Secondo lei il Medio Oriente con il terrorismo e con tutte le sue tensioni costituiscono davvero per l'Occidente un pericolo, oppure è un problema costruito a tavolino dagli Stati Unti per mantenere e giustificare la loro posizione dominante ? E quale può essere il ruolo dell’Europa?
Il terrorismo internazionale c’è ma, oltre a combatterlo con la diplomazia e con la politica, occorre mettere in campo una forte cooperazione tra le varie forze di polizia, tra i vari organismi giudiziari e i servizi segreti. L’efficacia della lotta al terrorismo richiede tutto questo ma bisogna anche studiare il terreno fertile sul quale il terrorismo riesce a proliferare. Invece l’amministrazione Bush (che non rappresenta tutta l’America) pensa di risolvere il problema con la semplice azione militare. L’Europa deve cercare di agire il più possibile in modo concorde, parlare con una voce sola. Questo può darci forza e credibilità. Invece sull’Iraq l’Europa purtroppo si è divisa, ed è stato un errore.
Quale la sua opinione sul contingente italiano in Iraq ?
Sono convinta che i nostri soldati siano bravissimi e debbano essere presenti dove occorre mantenere la pace e ricostruire un paese, ovvero nelle missioni di peace-keeping e nation-building. Ma in Iraq c’è la guerra, è un’altra cosa, e la loro presenza assume un altro significato.
Sappiamo che è molto difficile parlare in generale della condizione in cui vivono le donne nel mondo arabo e che le differenze tra le varie realtà sono molte. Potrebbe darci ugualmente una sua valutazione anche sulla base di quanto ha potuto osservare viaggiando in molti di quei Paesi?
Non esiste un’unica la donna nel mondo arabo, ma tante donne diverse in tanti Paesi diversi. Torno dall’Arabia Saudita e ho incontrato donne straordinarie, colte e attive, che hanno voglia di vedere riconosciuti i propri diritti e stanno combattendo un’ importante battaglia. Ho notato ad esempio che la società saudita è molto più chiusa di quella iraniana. Tuttavia le donne iraniane, nonostante il regime, hanno una grande vitalità e capacità di organizzarsi. In Iraq paradossalmente c’erano più donne laiche prima dell’inizio della guerra e del regime sanguinario di Saddam: ricordo che andavano in giro senza velo. Le recenti immagini che ci hanno mostrato i loro capi coperti di nero mentre si recavano ai seggi in file separate rappresentano una realtà ben diversa. In generale direi che le rappresentanti femminili del mondo arabo hanno una grande voglia di vedere rispettati i propri diritti: pur rivendicando la propria identità attraverso la nazionalità e la religione, non sono contrarie al progresso e all’emancipazione. Siamo noi che dobbiamo adeguare le nostre categorie di giudizio e valutazione, altrimenti non le comprenderemo mai fino in fondo.


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