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Inoccupate a chi?

Inoccupate a chi?

'Jobless oblige' - Il nostro Paese è popolato da alcuni milioni di persone, anzi donne, pensanti, competenti e sane che le statistiche definiscono 'inattive'...

Bartolini Tiziana Giovedi, 28/10/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2010

Come sempre è polemica e guerra di cifre: sarà vero l’8,2% dell’Istat o l’11% della Banca d’Italia? Il Ministro Sacconi non ha dubbi: il Governatore Draghi usa “dati esoterici” e, soprattutto, ha ragione chi rappresenta la situazione a tinte meno fosche. Oggetto del contendere sono i numeri della disoccupazione e la differenza di qualche punto percentuale significa ‘certificare’ che migliaia di persone - sulla carta - sono o no occupate. Su una cosa sembrano concordare tutti (economisti, politici, ricercatori e specialisti vari): superata la crisi, quella che si profila è una crescita definita “jobless”, cioè senza lavoro. La faccenda è già molto seria in sé, ma a questa preoccupazione se ne aggiunge un’altra: tale previsione non sembra suscitare particolari fremiti nelle classi dirigenti, che dibattono con più passione di politiche monetarie e finanziarie, di delocalizzazione e deregolamentazioni. Questa crisi mondiale e senza fine ha distrutto e distruggerà posti di lavoro senza provocare significativi mutamenti di rotta. I problemi sono nuovi, dettati dalla globalizzazione dei mercati e delle popolazioni, ma le soluzioni hanno un sapore antico. A conferma che, in Italia in modo particolare, il punto di osservazione di chi ha possibilità di manovra è arretrato c’è il dato dell’occupazione femminile: siamo in controtendenza rispetto ai paesi sviluppati e le donne che non lavorano e che non cercano più un’occupazione sono circa la metà della popolazione femminile in età lavorativa. Il fallimento dell’obiettivo di Lisbona del 60% di donne occupate è definitivo e senza possibilità di appello. Il nostro Paese è dunque popolato da alcuni milioni di persone, anzi donne, pensanti, competenti e sane che le statistiche definiscono “inattive”, che quindi non producono reddito e non contribuiscono alla fiscalità generale. Lasciando da parte il fatto che quelle donne - tra lavoro nero fuori casa e impegni familiari di cura per figli, nipoti e anziani - sono attivissime, la domanda che rimane senza risposta è: può un Paese fare a meno di questa ricchezza? Il coro dei no ufficiali è assordante, ma in realtà le donne sono le più penalizzate, insieme ai giovani, dalla crisi. Tornando alla Banca d’Italia, l’ultimo Bollettino economico dava il tasso di disoccupazione femminile al 9,4%, contro il 7,6% maschile. Nella drammaticità complessiva della situazione che accentua la forbice tra ricchi e poveri, cresce anche uno squilibrio tra i sessi che rende inevitabili ulteriori sconquassi: se si erodono i diritti delle donne - e il lavoro È un diritto - le fasce deboli lo saranno sempre di più. Una visione economica ‘tradizionale’ individua nella inferiore possibilità di consumare beni e merci il problema della disoccupazione femminile. Osserviamo però che alla riduzione di intelligenze ed energie di cui le donne sono portatrici nella società corrisponde un danno gravissimo in termini culturali. Forse è impossibile dare un valore numerico o monetizzare questa perdita, che è indiscutibile. Intanto si è tenuto il tradizionale Gran Ballo delle Debuttanti mentre echeggiavano nelle piazze le richieste di lavoro dei precari della scuola. In tanto frastuono di violini e fischietti siamo tranquille: a capo della Confindustria c’è una donna, Emma Marcegaglia, a capo della Cgil pure, Susanna Camusso. Qualcosa di buono dovrà succedere. Altrimenti, davvero, non c’è più speranza.



(1 novembre 2010)

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