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Ingeborg Bachmann alla Casa delle Donne

Ingeborg Bachmann alla Casa delle Donne

L’incontro, organizzato alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, si inserisce nel ciclo Le parole delle scrittrici dedicato alle letture e alle storie delle scritture femminili dell’otto-novecento.

Lunedi, 19/01/2015 -
Se la letteratura sia in grado di raccontare le distopie della Storia è la domanda da cui Camilla Miglio, docente di letteratura tedesca presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, prende le mosse per raccontare Ingeborg Bachmann, scrittrice e filosofa austriaca. Del resto, è questo lo stesso interrogativo posto dall’autrice nelle Lezioni di Francoforte – tenute tra il 1959 e il 1960 e con le quali è inaugurata la cattedra di Poetica presso la Johann Wolfgang Universitat di Francoforte sul Meno – dove si legge: “Su che cosa scrivere, per chi, e a che cosa dare voce al cospetto degli uomini, in questo mondo?”.



Pensare insieme la disperazione e la speranza, con cui la dialettica storica mette in discussione le nuove forme della parola, è lo stesso tentativo portato avanti dalle filosofie del Novecento, che la Bachmann conosce e con le quali dialoga. Si ricorderà come, già da studentessa di germanistica a Ganz e Vienna nell’immediato dopoguerra, Ingebord scriva una tesi contro Martin Heidegger. E non si scorderà come sia una fine studiosa di Wittgenstein e Musil. Tuttavia, è con Walter Benjamin che si instaura un dialogo privilegiato, una relazione costituita contemporaneamente da un’appropriazione e una reinterpretazione del filosofo tedesco. Infatti, ciò che caratterizza i movimenti della Bachmann è esattamente la capacità di reinterpretare gli autori e le autrici – una lettura attenta è rivolta all’amata Hannah Arendt – con i quali si intreccia il dialogo. Sottolinea Camilla Miglio, Ingebord “entra in una profonda sintonia con il pensiero dell’altro. Lo rimette, non direi con i piedi per terra, con le mani sul cuore. C’è nei suoi saggi una grande elaborazione intellettuale, razionale e astratta, che diviene concreta nel suo essere legata all’espressione della sofferenza e alla possibilità di superarla”.



Oltre alle tormentate vicende personali, la sofferenza che la Bachmann incontra è legata all’evento storico. Nella terza delle Lezioni di Francoforte, è lei stessa a scrivere come la sua sia una soggettività sempre piegata dalla Storia. È pervasa, travolta completamente dalla violenza e dalla contingenza dell’evento. Non si può scordare, infatti, la profonda crisi vissuta da intellettuali e scrittori nell’immediato dopoguerra, la stessa che aveva fatto da scenario ai quadri di Paul Klee e la stessa che spingerà a sostenere l’afasia della scrittura. Eppure, a differenza dei suoi contemporanei, la Bachmann non sembra rinunciare al soggetto – mantenuto, per riprendere una sua poesia tarda, “a costo di farsi scuoiare come Marsia” –, all’azione e al riscatto. Si testimonia, in questo modo, “non un’impossibilità ma una difficoltà del vivere”.



Di fronte alla Storia che aliena e a una speranza cui non si rinuncia, la scrittura si presenta come una terra di mezzo. Per riprendere le tesi di Jacques Derrida, essa è la terra del non più e del non ancora, definisce “un confine della lingua che è anche un confine del sé”. Eppure, Ingeborg lo intuisce appieno, è esattamente l’essere mediani, la condizione precaria di colei che sta in mezzo, a permettere l’atto della scrittura e a consentire il momento dell’orientamento. La scrittura e l’arte, si legge nelle Lezioni, riescono “a rompere il pragmatismo dell’Oggi”, a superarne le immagini convenzionali. Rispetto alla storia e alle distopie, la possibilità di uno scarto può essere data solo dalla letteratura. L’utopia elaborata dalla Bachmann non è quindi l’idea di un mondo migliore. Piuttosto, sono una lingua e una parola che, osservando le non utopie della dialettica, siano capaci di esprimerle e raccontarle. Con gli occhi sbarrati verso il presente, copiando lo sguardo dell’Angelus Novus dipinto da Klee, la letteratura ancora riesce a parlare.



Ma la scrittura non può prescindere dal momento della relazione. Ingeborg ritiene che elemento imprescindibile della letteratura, accanto al sé che parla, sia il tu che ascolta e osserva le parole. Perché la parola scritta non condurrebbe a nessun effetto se non fosse un continuo farsi condivisione. E la letteratura come sé relazionale, come dialogo aperto e mai statico, sembra essere rappresentata alla perfezione da una fotografia che ritrae la Bachmann di fronte a una scacchiera. Avrà appena fatto una mossa, spostato una pedina. Gli occhi sono rivolti verso il gesto appena compiuto e invitano a fare lo stesso. Come Ingeborg chiama a giocare così la letteratura chiama ancora a intervenire. Anche davanti alle macerie e ai conflitti, la parola non perde la capacità di agire e di essere performativa. Essa si fa azione, crea effetti. Parla e invita a prendere la parola perché “a ogni cedimento delle prove, il poeta risponde con una salva di avvenire”.

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