L’incontro, organizzato alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, si inserisce nel ciclo Le parole delle scrittrici dedicato alle letture e alle storie delle scritture femminili dell’otto-novecento.
Se la letteratura sia in grado di raccontare le distopie della Storia è la domanda da cui CamillaMiglio, docente di letteratura tedesca presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, prende le mosse per raccontare IngeborgBachmann, scrittrice e filosofa austriaca. Del resto, è questo lo stesso interrogativo posto dall’autrice nelle LezionidiFrancoforte – tenute tra il 1959 e il 1960 e con le quali è inaugurata la cattedra di Poetica presso la Johann Wolfgang Universitat di Francoforte sul Meno – dove si legge: “Su che cosa scrivere, per chi, e a che cosa dare voce al cospetto degli uomini, in questo mondo?”.
Pensare insieme la disperazione e la speranza, con cui la dialettica storica mette in discussione le nuove forme della parola, è lo stesso tentativo portato avanti dalle filosofie del Novecento, che la Bachmann conosce e con le quali dialoga. Si ricorderà come, già da studentessa di germanistica a Ganz e Vienna nell’immediato dopoguerra, Ingebord scriva una tesi contro MartinHeidegger. E non si scorderà come sia una fine studiosa di Wittgenstein e Musil. Tuttavia, è con WalterBenjamin che si instaura un dialogo privilegiato, una relazione costituita contemporaneamente da un’appropriazione e una reinterpretazione del filosofo tedesco. Infatti, ciò che caratterizza i movimenti della Bachmann è esattamente la capacità di reinterpretare gli autori e le autrici – una lettura attenta è rivolta all’amata HannahArendt – con i quali si intreccia il dialogo. Sottolinea Camilla Miglio, Ingebord “entra in una profonda sintonia con il pensiero dell’altro. Lo rimette, non direi con i piedi per terra, con le mani sul cuore. C’è nei suoi saggi una grande elaborazione intellettuale, razionale e astratta, che diviene concreta nel suo essere legata all’espressione della sofferenza e alla possibilità di superarla”.
Oltre alle tormentate vicende personali, la sofferenza che la Bachmann incontra è legata all’evento storico. Nella terza delle Lezioni di Francoforte, è lei stessa a scrivere come la sua sia una soggettività sempre piegata dalla Storia. È pervasa, travolta completamente dalla violenza e dalla contingenza dell’evento. Non si può scordare, infatti, la profonda crisi vissuta da intellettuali e scrittori nell’immediato dopoguerra, la stessa che aveva fatto da scenario ai quadri di Paul Klee e la stessa che spingerà a sostenere l’afasia della scrittura. Eppure, a differenza dei suoi contemporanei, la Bachmann non sembra rinunciare al soggetto – mantenuto, per riprendere una sua poesia tarda, “a costo di farsi scuoiare come Marsia” –, all’azione e al riscatto. Si testimonia, in questo modo, “non un’impossibilità ma una difficoltà del vivere”.
Di fronte alla Storia che aliena e a una speranza cui non si rinuncia, la scrittura si presenta come una terra di mezzo. Per riprendere le tesi di JacquesDerrida, essa è la terra del non più e del non ancora, definisce “un confine della lingua che è anche un confine del sé”. Eppure, Ingeborg lo intuisce appieno, è esattamente l’essere mediani, la condizione precaria di colei che sta in mezzo, a permettere l’atto della scrittura e a consentire il momento dell’orientamento. La scrittura e l’arte, si legge nelle Lezioni, riescono “a rompere il pragmatismo dell’Oggi”, a superarne le immagini convenzionali. Rispetto alla storia e alle distopie, la possibilità di uno scarto può essere data solo dalla letteratura. L’utopia elaborata dalla Bachmann non è quindi l’idea di un mondo migliore. Piuttosto, sono una lingua e una parola che, osservando le non utopie della dialettica, siano capaci di esprimerle e raccontarle. Con gli occhi sbarrati verso il presente, copiando lo sguardo dell’Angelus Novus dipinto da Klee, la letteratura ancora riesce a parlare.
Ma la scrittura non può prescindere dal momento della relazione. Ingeborg ritiene che elemento imprescindibile della letteratura, accanto al sé che parla, sia il tu che ascolta e osserva le parole. Perché la parola scritta non condurrebbe a nessun effetto se non fosse un continuo farsi condivisione. E la letteratura come sé relazionale, come dialogo aperto e mai statico, sembra essere rappresentata alla perfezione da una fotografia che ritrae la Bachmann di fronte a una scacchiera. Avrà appena fatto una mossa, spostato una pedina. Gli occhi sono rivolti verso il gesto appena compiuto e invitano a fare lo stesso. Come Ingeborg chiama a giocare così la letteratura chiama ancora a intervenire. Anche davanti alle macerie e ai conflitti, la parola non perde la capacità di agire e di essere performativa. Essa si fa azione, crea effetti. Parla e invita a prendere la parola perché “a ogni cedimento delle prove, il poeta risponde con una salva di avvenire”.
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