La scorsa settimana la ministra Lorenzin ha svolto alla Camera dei deputati un’informativa governativa in merito all’attuazione della normativa in tema di interruzione volontaria di gravidanza, alla luce della recente pronuncia del Comitato Europeo dei diritti Sociali del Consiglio d’Europa. La più ordinaria delle aspettative sarebbe stata quella di ascoltare una relazione che comunicasse le misure con cui il Governo intendeva dare corso alla soluzione dei problemi contestatigli dalla pronuncia di condanna da parte dello stesso Comitato. Ossia, che “le donne che intendono chiedere un aborto possono essere costrette a trasferirsi in altre strutture sanitarie, in Italia o all'estero, o ad interrompere la loro la gravidanza senza l'appoggio o il controllo delle autorità sanitarie competenti, o possono essere dissuase dall'accedere ai servizi di aborto”, previsti dalla normativa italiana. Invece, nella fase preliminare dell’intervento ministeriale, si è proceduto ad affermare che il reclamo presentato dalla Cgil in merito alla corretta applicazione della 194 non era stato “ancora deciso”, perché costituiva “una mera proposta al Consiglio d’Europa…e non un pronunciamento definitivo dell’organo politico costituito dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa”.
Immediatamente è balzata agli occhi di chi è competente della materia la difformità rispetto a quanto prevede la normativa europea al riguardo della valenza delle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti sociali, che all’opposto il 12 ottobre 2015 ha deliberato in maniera definitiva la violazione della Carta Europea Sociale. Nello specifico si è accertata la lesione del diritto alla salute delle donne, previsto dal correlato art.11, in base al quale è sancito l’impegno di ogni Stato “ad adottare sia direttamente sia in cooperazione con le organizzazioni pubbliche e private, adeguate misure volte in particolare ad eliminare per, quanto possibile, le cause di una salute deficitaria”. A questa prima inesattezza se ne è accompagnata un’ulteriore, allorquando la ministra Lorenzin ha rimarcato che di un precedente reclamo, il n. 87/2012 avente ad oggetto la medesima materia, si era chiusa la procedura “in senso favorevole all’Italia”.
Il riferimento era alla Risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, in data 30 aprile 2014, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla titolare del dicastero alla Salute, ha preso atto della violazione della Carta Sociale Europea, accertata nel 2013 dal Comitato Europeo dei diritti Sociali. Con tale Risoluzione si raccomandava alle istituzioni italiane competenti di “adottare specifiche misure tese a dare effettiva applicazione alla legge 194……in caso contrario si determinerebbe una perdurante violazione dell’art. 117, co.1, Cost., in relazione agli artt. 11 ed E della Carta Sociale Europea, oltre che degli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.” (Benedetta Liberali). Ad oggi pare che ancora non siano state messe in campo opportune strategie per ripristinare la tutela del diritto alla salute violato in capo alle donne che intendono effettuare un’interruzione volontaria di gravidanza, visto che la pronuncia del Comitato dei Diritti Sociali dello scorso mese di ottobre ha condannato nuovamente l’Italia.
A cercare di comprendere le ragioni di questa per così dire posizione negazionista al riguardo delle decisioni afferenti ai due reclami proposti in tema di attuazione della 194, il primo nel 2012 ad opera dell’IPPF su input della LAIGA (Libera Associazione Ginecologi per l’Applicazione della 194), il secondo della Cgil nel 2013, dovremmo leggere il resoconto dell’informativa governativa. In esso è acclarato che per l’esecutivo lo stato di applicazione di questa legge è positivo, visto che questa normativa ha avuto il pregio di consentire la diminuzione degli aborti, da 233.976 nel 1983 a 97.535 nel 2014. Semmai si verifichino casi in cui gli alti tassi di obiezione di coscienza impediscano l’erogazione del servizio di ivg, “queste sono, ahimè, parametrate alle disfunzioni organizzative che quel territorio, quella ASL o quella regione, può avere per un deficit organizzativo territoriale”. Da ciò discende che se esistono territori ove le percentuali di obiezione sono pari al 90%, la colpa è solo ed esclusivamente delle istituzioni regionali di riferimento e non dello Stato, per il tramite del Ministero della Salute.
Così relazionando la ministra non terrebbe nel debito conto che lo stesso Comitato Europeo dei diritti Sociali stabilisce quanto questo scaricabarile non possa essere giustificato atteso che, qualora lo ritenga necessario, il Governo può predisporre soluzioni alternative. Quali ad esempio uno specifico commissariamento delle Regioni che nulla oppongono alle rilevanti percentuali di medici obiettori ostative della efficace applicazione della normativa prevista in materia di aborto volontario. Evidentemente una volontà precisa al riguardo non c’è, preferendo contrapporre il diritto alla salute delle donne al diritto all’obiezione dei medici, come si evincerebbe anche dagli interventi dei parlamentari svoltisi dopo informativa governativa che peraltro ricalcava la Relazione ministeriale sullo stato di attuazione della 194, illustrata lo scorso ottobre in Parlamento dalla ministra Lorenzin.
In tal modo, però, si corre il rischio di far divenire l’obiezione di coscienza uno strumento di politica sanitaria che vada nella direzione di disapplicare la 194 nella realtà concreta di tutti i giorni. Rendendola un “ostacolo legale” all’accesso dei servizi previsti in materia di interruzione volontaria di gravidanza, non se ne ricava che le donne non abortiranno, ma, semmai, che sceglieranno la clandestinità. Soprattutto nella realtà odierna, ove è molto frequente l’acquisto on line e a costi contenuti di kit di farmaci con effetti abortivi, soprattutto in Italia dove non c’è un puntuale monitoraggio degli aborti effettuati fuori dal rispetto della normativa vigente. Una normativa, la 194, a carattere costituzionalmente vincolato che impone l’obbligo allo Stato di salvaguardare la salute delle donne, senza se e senza ma. Come del resto confermato dalla pronuncia definitiva del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, checché ne dica la ministra Lorenzin.
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