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Incontri che cambiano la vita: Natalia Ginzburg. Ricordo a 30 anni dalla morte

Incontri che cambiano la vita: Natalia Ginzburg. Ricordo a 30 anni dalla morte

Un incontro con un personaggio fondamentale per la letteratura e la storia italiana: Natalia Ginzburg, scrittrice, saggista, autrice teatrale, politica. In occasione dell'anniversario dalla scomparsa, un'intervista-testimonianza

Giovedi, 07/10/2021 - “Credo nel disimpegno della letteratura. I romanzi, le poesie e i racconti sono una cosa, gli articoli dei giornali e i saggi un’altra. Narrativa, teatro e poesia devono essere liberi, svincolati da qualunque ideologia”
Natalia Ginzburg


A cura di Alma Daddario
Natalia Ginzburg è stata la mia prima intervista. Mi ritengo davvero fortunata per avere conosciuto una delle nostre scrittrici più talentuose e note, anche a livello internazionale. Ricordo che le telefonai per chiedere un incontro, ma senza tante speranze, sapevo che in quel periodo era molto impegnata anche politicamente, stava seguendo il caso della piccola Serena Cruz, una bambina contesa, e la legge sulle adozioni, che le stava molto a cuore come parlamentare e come donna. Mi fissò subito un appuntamento per il giorno successivo. Abitava dietro al Pantheon, a due passi dal Parlamento. La sua casa era immensa, arredata in modo semplice e sobrio, piena di libri. Me lo aspettavo. Venne ad aprirmi una signora anziana, una colf dall'aspetto dolce e familiare. Mi fece accomodare nella sala da pranzo dove troneggiava un camino di marmo. Notai subito sul camino, sistemate in cornici d'argento, foto storiche: Natalia da giovane con il marito Leone Ginzburg, con il figlio Carlo, e ancora con Leone prima dell'arresto di lui da parte dei fascisti. Notai che stranamente non erano esposte foto del secondo marito: l’anglista, critico letterario e traduttore Gabriele Baldini, con cui avrebbe vissuto alcuni anni a Londra e avrebbe avuto altri due figli. Non attesi molto. Quando entrò nella stanza, era vestita molto semplicemente, il volto austero e serio che sempre la caratterizzava. Ricordo che pensai che dai suoi lineamenti parevano emergere i segni di antiche civiltà. Mi accolse con una cortesia pacata e al contempo misteriosa. Ascoltava attentamente le mie domande, e rispondeva nel modo semplice e naturale proprio della sua prosa diretta e immediata: una voce narrante che sembrava non essere influenzata dalla tradizione aulico-declamatoria di una certa narrativa italiana. Il suo Lessico famigliare, il romanzo forse più noto in Italia, è l’esempio cardine della sua naturalezza espressiva, una scelta che ha fatto di questa scrittrice una figura originale, quanto anomala, nel panorama letteratura italiana. Mi stava seduta davanti, mi scrutava con quel suo viso dallo sguardo severo, segnato dalla storia. A me tremavano le gambe dall’emozione, mi davo un contegno armeggiando con il piccolo registratore. Anche le foto sul caminetto partecipavano all’intervista. Raccontavano quanto dovesse essere stata dura per lei, antifascista e di origine ebrea, in un periodo storico che le avrebbe imposto drammatiche scelte di vita, nel pubblico e nel privato. Pensavo agli stenti dell’esilio in Abruzzo, condiviso con il marito Leone e i loro due bambini, all’attività politica clandestina, all’arresto e alla tragica morte di lui, appena trentacinquenne. Ma contemporaneamente non potevo fare a meno di pensare quanto potesse essere diversa quella mano che aveva scritto pure commedie tanto brillanti e ironiche, come Ti ho sposato per allegria, per l’amica Adriana Asti, o libri come Caro Michele e La vita immaginaria.
Natalia Ginzburg, era davanti a me: una protagonista vivente della storia, la narratrice delle “storie che contano”. Profonda, impegnata, coerente nella vita come nella letteratura e nella politica. “Quando il PCI decise di cambiare nome – ricordò di lei Rossana Rossanda – ebbe un grido”.
Nata a Palermo nel 1916, Natalia Ginzburg è deceduta a Roma l’8 Ottobre del 1991.

(L’intervista è stata effettuata nel 1989)

D – Quando ha scritto Lessico Famigliare ha affermato: “Luoghi, fatti e persone sono tutti reali, non ho inventato niente”. In questo libro racconta la sua infanzia con una certa ironia, malgrado i momenti storici difficili che ne fanno da sfondo.

R – La mia infanzia è stata felice malgrado tutto. Anche se allora non me ne accorgevo, perché a casa mia si litigava spesso. Mia madre rimproverava a mio padre di starsene sempre chiuso nel suo studio alla sera, di non farle compagnia. E mio padre replicava: “Che asina, mica t’ho sposato per farti compagnia”!

D – Cosa faceva quel padre chiuso nello studio tutte le sere?

R – Scriveva. Ma soprattutto leggeva romanzi. Amava molto i romanzi gialli, anche se li considerava una specie di sottoletteratura. Li leggeva in inglese e in tedesco, perché così gli sembravano più seri. Poi, quando scoprì Simenon cambiò idea sugli scrittori di gialli.
lui.

D – Quale è stata la prima volta che si è accorta che nella vita voleva scrivere?

R – Non c’è stato un momento preciso. Scrivere era una cosa naturale per noi bambini, come parlare. Mi ricordo che già da molto piccoli, con i miei fratelli, scrivevamo delle poesie. Erano componimenti d’impulso, parlavano delle nostre emozioni, a volte erano veri e propri nonsense. Quando scrissi i primi versi avevo cinque anni. Avevo nostalgia di Palermo, la mia città natale. Ci eravamo da poco trasferiti a Torino, e io scrissi: “Palermo, Palermino, sei più bello di Torino”. Ne parlo anche in Lessico famigliare, perché i miei da allora mi incoraggiarono a continuare.

D – Quanto c’è di lei negli altri libri che ha scritto?

R – Lessico famigliare è l’unico completamente autobiografico. Mentre lo scrivevo mi accorgevo che avevo la tentazione di inventare qualcosa, ma subito cambiavo idea. Tutti gli altri libri, saggi a parte, sono un insieme di invenzione e autobiografia. Uno scrittore anche suo malgrado, riporta il suo bagaglio di esperienze e vissuto.

D – Anche l’ambiente sociale e il momento storico determinano e condizionano la scrittura, o in qualche modo, più o meno evidente, impongono la trasmissione di un messaggio al lettore?

R – La narrativa riflette sempre il vissuto dell’autore, le cose che accadono in un momento storico, ma non dovrebbe mai essere dimostrativa, sostenere a tutti i costi una tesi o propagandare un’idea politica. Credo nel disimpegno della letteratura. I romanzi, le poesie e i racconti sono una cosa, gli articoli dei giornali e i saggi un’altra. Narrativa, teatro e poesia devono essere liberi, svincolati da qualunque ideologia.

D – Lo stile dei suoi scritti è caratterizzato dall’immediatezza e intellegibilità. Quanto esercizio richiede la semplicità nella narrativa?

R – Non è una questione di esercizio, anche se nelle nostre scuole non si fa molto per aiutare gli studenti a scrivere con una prosa più fluida e sintetica. Normalmente non è una cosa che si possa decidere a tavolino. A me viene naturale scrivere in modo da essere capita. Per me lo scrivere è un modo di comunicare, di parlare con le persone, di dare agli altri, nel modo più semplice, qualcosa che abbiamo dentro.

D – Che importanza ha avuto, per la scrittura e non solo, l’ambiente culturale negli anni in cui ha vissuto a Torino?

R – A Torino ho conosciuto Leone Ginzburg, che a quel tempo era uno degli organizzatori del Movimento Giustizia e Libertà, e uno dei principali collaboratori della nascente Einaudi. Ci siamo sposati nel 1938, e in quegli stessi anni ho conosciuto Cesare Pavese, che era un suo amico. Dopo l’esperienza del confino e della guerra, sono tornata di nuovo a Torino, e ho iniziato a collaborare con Einaudi. Con me c’erano Pavese, Calvino, Mila, Balbo. E’ stato Felice Balbo a convincermi ad iscrivermi al Partito Comunista Italiano. Dopo un po' però ne sono uscita: preferisco appartenere al gruppo degli indipendenti di sinistra.

D – Cosa ricorda di quegli intellettuali con cui ha condiviso una parte della sua vita?

R – Li ricordo tutti con grande affetto, eravamo amici, mi hanno formata umanamente e professionalmente. Ho subìto certamente l’influenza di Leone Ginzburg che ho amato, e in senso più letterario quella di Cesare Pavese. Lo ammiravo tanto da cercare di scrivere come lui. Quando penso a Cesare la cosa che rimpiango di più è la sua ironia. Paradossalmente era un’ironia che veniva fuori soltanto con gli amici. Non ce n’è traccia nei suoi libri. Si è ucciso un’estate in cui a Torino nessuno di noi c’era. Aveva calcolato tutte le circostanze e gli imprevisti, non voleva essere colto di sorpresa. Aveva parlato di uccidersi da tanto tempo, ma nessuno di noi gli aveva creduto.

D – Qual è il linguaggio che offre più libertà a un autore, fra narrativa e poesia?

R – Posso parlare per la mia esperienza di autore di prosa, dato che non scrivo più poesie dall’infanzia. In realtà è da quando avevo sedici anni che non riesco più a scriverne, preferisco leggerle: Dylan Thomas, Leopardi, Sandro Penna, sono i poeti che preferisco. Mi trovo a mio agio con il romanzo, e mi piace scrivere anche per il teatro, anche se a teatro vado pochissimo. Mia madre era innamorata del teatro, ci andava spesso con delle amiche. Le piaceva molto Ettore Petrolini, che per mio padre era una persona equivoca. Per mio padre tutti gli attori comici erano persone equivoche, perché si truccavano e si tingevano i capelli.

D – E cosa vuol dire per lei scrivere per il teatro?

R – Fare delle commedie, cercare di far parlare personaggi che dicano “io”. Scrivere per il teatro vuol dire per me usare la prima persona non in senso autobiografico, e questo si può fare solo con il teatro.

D – Tra le sue opere teatrali, quale le è piaciuta di più vedere rappresentata?

R – Ti ho sposato per allegria, soprattutto alla prima con Adriana Asti. Comunque mi è piaciuta anche l’interpretazione che ne ha fatto in seguito Maddalena Crippa.
Poi L’inserzione, sempre con la Asti, ripresa anche da Joan Plowright e Suzanne Flon in Inghilterra.

D – E che ne pensa della versione cinematografica con Monica Vitti?

R – La Vitti è un’attrice bravissima, ma la versione cinematografica mi è piaciuta meno. Il teatro è un’altra cosa. Credo che le commedie debbano restare a teatro, e che i romanzi debbano restare romanzi. Mi hanno chiesto di trarre delle commedie dai miei romanzi, ma ho sempre rifiutato. Il teatro è più difficile del cinema come scrittura. Ultimamente ho fatto parte della giuria del Premio Pirandello. Manoscritti ne arrivavano tanti, ma è anche successo che il premio non venisse assegnato perché nessuno ci convinceva veramente.

D – Cosa ama leggere ultimamente?

R – Rileggo alcuni libri che ho amato in passato, soprattutto Cechov. Ma anche qualche contemporaneo: Isabel Allende, Elsa Morante, e tra i classici Marcel Proust.

D – E gli scrittori americani tanto cari a Pavese?

R – Confesso che non conosco bene la letteratura americana contemporanea. Mi piace Flannery o’ Connor, ma trovo noiosi i minimalisti.

D – E tra i suoi romanzi, quale preferisce?

R – Le voci della sera. Ogni tanto me lo rileggo.

D – Tra i suoi ultimi libri c’è La famiglia Manzoni. L’ha impegnata molto la ricerca storica di quel periodo?

R – In realtà non ho fatto una vera e propria ricerca storica. Ho avuto la fortuna di disporre degli epistolari, sono andata a cercare degli inediti, e tra le lettere ho scelto quelle che mi sembravano più significative. Non c’è nulla di inventato, tutto è tratto da lettere vere. In questo senso si può parlare di storia e non di pura fantasia, pur non trattandosi di un vero e proprio romanzo storico.

D – Cosa vorrebbe scrivere oggi?

R – Sto pensando a un libro sul problema delle adozioni. Sono rimasta colpita da alcuni episodi di bambini tolti a genitori affidatari. Vorrei scrivere un libro per mobilitare l’opinione pubblica che spieghi il modo in cui si trattano queste cose in Italia. Ho molto a cuore il caso di Serena Cruz, la piccola tolta alla famiglia che l’aveva adottata. Penso che in questo caso abbiano sbagliato i giudici, che volendo arginare il problema delle adozioni illegali hanno fatto di questa bambina un capro espiatorio. Non si può mettere in gioco la vita di un bambino per le mancanze legali della nostra società.

D – E sulle problematiche legate ai problemi delle donne in tutti gli ambiti, in che modo l’incarico di parlamentare la vede impegnata?

R – Recentemente mi sono battuta per la legge sulla violenza sessuale. In questa legge è sacrosanto l’articolo uno che definisce la violenza un reato contro la persona e non contro la morale. E come tale va perseguito d’ufficio. Non mi sembra giusto il doppio regime proposto dalla Democrazia Cristiana, cioè procedibilità d’ufficio se la violenza è commessa fuori dal matrimonio, e querela di parte se è commessa in ambito familiare.

D – Da quanti anni vive a Roma?

R – Dal 1952. Prima però Roma era un’altra cosa. Era una città bellissima, adesso è soffocata dal traffico e dall’inquinamento. Io proibirei di avere più di un’automobile per famiglia. Poi bisognerebbe allontanare dal centro i Ministeri. Magari trasferirli a Frascati, o altrove. Anche il Parlamento bisognerebbe trasferire, e lasciare finalmente la città ai cittadini.

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