Domenica, 07/03/2010 - Personalmente, provo molta rabbia. Siamo nel duemiladieci e le questioni di genere hanno subito un forte arretramento da circa 15 anni in qua. Anzi no, da prima. Tutto, secondo me, è cominciato con Drive-in, la trasmissione di Canale 5.
Sono sempre la prima a dire che è un problema culturale e sociale. Questa volta aggiungo che è anche un problema politico, perchè – a dirla con una massima cara al ’68 - il privato è politico.
Come sta scritto nel famosissimo libro del maestro Marcello D’Orta, “almeno l’Ottomarzo alle donne trattiamole bene”. E invece no. A ridosso della fatidica data (eppure si tratta della commemorazione di un’ecatombe in un luogo di lavoro) tutti si sentono in diritto di distinguersi, vuoi per paternalismi, vuoi per individualismi, vuoi per minimalismi, fa così radical-chic. Il peggior distinguo, però, è quello di chi aborrisce il femminismo.
Rebecca West – scrittrice inglese molto longeva – affermò di non sapere esattamente cosa fosse il femminismo, dato che veniva tacciata come femminista ogni qualvolta esprimeva sentimenti diversi da uno zerbino o da una escort.
Durate la mia adolescenza, i tempi mi sembravano migliori di quelli odierni e a confrontarli scopro che allora si era più onesti e sinceri rispetto alle lotte ed alle fatiche femminili.
Il mio Ottomarzo sapeva di biciclette, di nebbia marzolina e di soli dieci centimetri di mimosa, non fronde, magari ad orpello di orchidee e rose (fiori nobili, senz’altro, ma di altro significato).
Gli intellettuali maschi, per esempio, si dimostrano così paternalisti. Rievocano storie di donne vittime, come se per costoro l’Ottomarzo fosse una sorta di Shoah: qualcosa che è stato ed è soltanto da ricordare, ormai. Oggi pare sia diventata la festa delle vittime, delle oppresse, delle escluse. Celebriamo le vinte (che si scatenano in orride soirèe con spettacoli trash) e non le vincitrici, come Mary Daly, Nancy Pelosi, bell hooks, Auung San Su Kyi, Anne Lind, Anna Polit’kòvsakja. Insomma, insegniamo alle giovanissime a proteggersi dal mondo, invece di spronarle a gestirlo.
Io non sono un’intellettuale, né un’artista o un outsider il cui pensiero si distingue per anarchia o dirompenza. Sono una persona qualunque la cui battaglia è contro l’amministratore del condominio, il bottegaio sotto casa, il vigilino della service, gli altri automobilisti, l’idraulico lento ed esoso. Combatto quotidianamente contro la fisica degli elementi, la gravità dei corpi ed il tempo assoluto, mentre mi farebbe più comodo un corridoio spazio-temporale o meno pioggia sul bucato steso.
Non posso distinguermi, non voglio distinguermi dalle mamme che si trafelano con zaini e grembiulini. I problemi delle donne non sono individuali: i miei non sono diversi da quelli della mia collega, della mia amatissima vicina di casa o della mia amica del cuore che non vedo mai.
Perché distinguersi? Perché, forse, essere donne arrabbiate non è per bene? Una volta Nanni Moretti si chiedeva se si sarebbe notata più la sua presenza o la sua assenza. Ecco, per chi di noi donne si tira fuori dalla denuncia sulle cose non vanno è la stessa cosa. Diventa solo un modo per affollare i ranghi della terra di mezzo: né escort né femminista. Siamo tornati, dunque, a Rebecca West.
Ciò non significa che le donne sono una massa indistinta, anzi. Sono una serie infinita di arcipelaghi ed atolli. Sono parte del mondo, non un mondo a parte. Eppure, mai come in questi ultimi anni, ripeto, le cose sono andate peggio. Subiamo, come donne “arrabbiate” (per non dire femministe perché è sconcio) gli stessi pregiudizi degli omosessuali. Provate a vedere Mine Vaganti – l’ultimo film di Ferzan Ozpetek – e capirete.
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