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In viaggio con… Mariangela Barbanente

In viaggio con… Mariangela Barbanente

Intervista alla co-autrice del docufilm realizzato con Cecilia Mangini dal titolo “In viaggio con Cecilia”

Mercoledi, 04/02/2015 -
La nostra è una repubblica storicamente fondata sulla “prescrizione”, con una memoria a tempo. Un virus che si è infiltrato nelle pieghe della politica e del nostro sistema giudiziario. Trascorso il tempo, la prescrizione può condurre all’oblio, ad uno stato di rassegnazione che ha forse un legame con quella “inerzia” che Cecilia Mangini denuncia con disdegno nel suo ultimo documentario. Una condizione su cui si confronta con Mariangela Barbanente, co-regista e compagna di “road riprese” nel docufilm "In viaggio con Cecilia", che a lei controbatte: “a cosa è servito manifestare, imbrattare i muri, protestare?” Se la giustizia ha un tempo, se qualsiasi condanna può cadere in prescrizione, se insomma può non esserci un colpevole a disastri umani e ambientali in corso, allora continuare a denunciare con le parole e con la macchina da presa è un modo per resistere proprio a quel senso di impotenza. Dalla visione del road movie e dagli ultimi accadimenti giudiziari nasce il desiderio di rivolgere alcune domande a Mariangela Barbanente, ideatrice, sceneggiatrice e viandante per le strade delle periferie industriali della Puglia.



La “fuga” dai Sud, del mondo e della nostra penisola, continua ad essere per molti giovani un’esigenza, dettata dalle necessità o da ragioni professionali. Per te il distacco dalla Puglia, regione dove sei nata, è stato uno strappo forzato o una scelta ragionata? La distanza ha cambiato il tuo modo di guardare e di filmare la terra da cui provieni?

Nessuno mi ha costretto ad andare via, è stata una scelta, anzi un desiderio quasi adolescenziale. La provincia mi andava stretta, ancor più della vita al Sud, avevo bisogno del confronto col resto del mondo. Ancora adesso penso che la provincia ti costringa a delle scelte forzate dalle regole non scritte della comunità. Col tempo mi sono resa conto che anche la grande città ha i suoi limiti, ugualmente forti: pur offrendoti tantissime possibilità tende a farti perdere quella freschezza che permette di realizzare idee originali. Il compromesso tra queste due situazioni non è semplice… Anche per questo arrivare a Roma era stata una boccata d’aria fresca e uno shock allo stesso tempo. Era il 1989. Ho provato a vivere a Londra (ne sono scappata dopo due mesi), Parigi (resta la mia capitale preferita), Napoli. Per poi tornare a Roma, scelta definitivamente come mia città di residenza anche perché è una città del sud, non troppo lontana dai miei territori d’origine.

Alcuni anni fa, ho ritenuto utile tornare a vivere per un po’ in Puglia, a Bari, per sperimentarne di nuovo la quotidianità. È stato quando ho girato “Ferrhotel” (un documentario sulla foresteria dei ferrovieri della Stazione Centrale occupata da un gruppo di rifugiati somali). Dopo vent’anni fuori, la Puglia era diventata il luogo in cui tornavo per le feste comandate: troppo poco per viverne le contraddizioni. Volevo tornare a immergermi. Allo stesso tempo penso che guardare la terra da cui provengo dall’esterno mi permetta di avere uno sguardo più ampio, più oggettivo, meno inquinato dalla miopia inevitabile con cui si guarda il posto in cui si vive.



Chi resta rischia di non avvertire con lucidità quanto sta accadendo in alcune zone, di averne dunque una “percezione irreale”?

Al contrario, credo che chi resta abbia una percezione profonda di quello che avviene, perché lo vive sulla propria pelle e nella propria carne. Il punto è non lasciarsi annichilire, o schiacciare, da questa pressione così forte. Io credo che la gente di Taranto sia profondamente consapevole dell’ambiente in cui vive, più di me che ne ho una conoscenza “intellettuale”, mutuata dalle letture, dall’informazione. Il punto è che quando si è immersi in una realtà così complicata e faticosa, molto spesso l’unico modo per sopravvivere è lasciarsene anestetizzare. Perché vivere con la consapevolezza che l’ambiente in cui siamo immersi ci sta uccidendo, ti uccide prima dentro e allora è meglio non pensarci. Per questo ho grande stima e ammirazione per tutte quelle persone, che sono in proporzione pochissime, che continuano a combattere, anche col rischio di diventare ossessivi. Sono loro che tengono alto il livello di guardia.



Dopo aver intervistato alcuni giovani per le strade di Brindisi, nel documentario si assiste ad un confronto tra te e Cecilia, una sorta di scambio tra donne di generazioni differenti: si osserva ad una reazione diversa al vostro incontro con i ragazzi della città – le ragazze sembrano schernirsi dinanzi alla camera – una effettiva divergenza di vedute?

In quel momento, mentre discutevamo, sì, c’era una profonda divergenza di vedute. Non avevo sopportato il modo in cui Cecilia si rapportava a quei ragazzi: troppo dall’alto in basso. Poi, parlandone, ho capito che c’era anche un livello di provocazione e ho intuito che sotto la differenza di atteggiamento c’era un minimo denominatore comune. Anche a me quel menefreghismo faceva male. E non si trattava solo di menefreghismo, ma di senso di sconfitta. Molti spettatori under trenta del film ci hanno criticato per quella sequenza, non solo giovani della città in cui è stata girata, Brindisi. Le critiche sono arrivate anche dal pubblico di altre proiezioni e di altre città. Lo capisco, e lo sapevamo che sarebbe avvenuto, ma quando abbiamo deciso di utilizzare quella sequenza nel nostro film, è stata una scelta consapevole: mostrare questa parte della società era più provocatorio e meno rassicurante di mostrare giovani impegnati. Una sequenza come questa disturba, proprio per questo ci scava dentro di più.

In quanto alle ragazze che si schermivano… a ripensarci ora non me la sento più di dire che le ragazze – nonostante siamo nel XXI secolo - preferiscano rimanere nell’ombra. Penso che sia un diverso modo di affrontare le cose. Le donne hanno bisogno di più tempo per esprimere il proprio pensiero, capire se ci sono le condizioni per farlo, meditare su quello che dicono e usare con maggiore consapevolezza le parole. Ecco perché l’intervista per strada non è lo strumento migliore per ascoltarle.



Nei vostri lavori entrambe avete mostrato una forte sensibilità alla condizione femminile nel meridione. Cecilia però non ha mai ha mai voluto accostare la sua figura di prima documentarista al movimento femminista; dal canto tuo, perché nei lavori di Mariangela Barbanente si avverte un interesse simile per le problematiche femminili?

Le conquiste del femminismo degli anni ’60 e ’70 fanno parte del mio patrimonio genetico, è una consapevolezza che nessuno mi strapperà, mi è stata passata dal latte materno. Allo stesso tempo parlare di donne non è una mia priorità. Nei miei lavori - nei documentari come nelle sceneggiature - quello che mi interessa è raccontare l’umanità, poco cambia se i protagonisti siano uomini o donne. Dei miei quattro, l’unico documentario espressamente dedicato a una problematica femminile è “Sole”. È un film a cui sono molto affezionata, un progetto con cui ho convissuto per 5 anni prima che vedesse la luce. Le protagoniste di quel film le ho frequentate per anni prima di trovare i soldi per poterlo realizzare. Allo stesso tempo ho cercato di raccontare la loro fatica, senza sottolineare che fossero donne ma esseri umani a cui veniva strappata giorno per giorno l’identità, l’autostima, i diritti. Anche in “Ferrhotel” ci sono molto personaggi femminili, nonostante la percentuale di donne tra gli occupanti della foresteria fosse al massimo il 20% del totale. Ovviamente mi era più facile comunicare con loro, trovare un’intimità. È inevitabile.



Di recente, si è molto parlato di prescrizione, in termini giuridici per l’andamento della vicenda Eternit, ma in senso più ampio come riduzione dei tempi della memoria storica. Anche il caso del Petrolchimico di Brindisi rischia di cadere in prescrizione, senza carnefici né giustizia per le vittime?

Quando la Legge prescrive un reato, lo ritiene non più condannabile, mina profondamente il senso di giustizia, non solo di chi è stato colpito perché si diffonde a macchia d’olio in tutta la società. Si perde fiducia in chi dovrebbe vegliare sul Bene Comune. La vicenda del Petrolchimico è stata archiviata prim’ancora di finire nelle aule di un tribunale. Questa è una grossa ferita per la città di Brindisi che la rende più fragile, più esposta, più ripiegata su se stessa. Ecco perché Taranto, in quella magnifica estate del 2012, è stata così reattiva e vivace: perché il fatto che dei giudici avessero riconosciuto il torto a loro fatto ha infuso nuova fiducia. Due anni dopo quella fiducia è stata sperperata facendo ripiombare la città nella disperazione e nel disincanto.



Trasmesso di recente sul piccolo schermo -venerdì 16 gennaio su Rai 5 - il docufilm “In viaggio con Cecilia” continua a sollevare riflessioni e interrogativi nelle sale. Si auspica che giunga anche nelle scuole, proprio fra quei ragazzi “ritrosi” e quelle ragazze che si schernivano dinanzi alla camera, forse così più consapevoli di potersi esprimere.

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