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In viaggio con Cecilia Mangini

In viaggio con Cecilia Mangini

Due registe tornano nella propria terra per documentarne le metamorfosi

Martedi, 11/11/2014 -
Strade che allontanano poi riconducono a casa, quasi fosse necessaria una distanza per potervi tornare con occhi dalla rinnovata consapevolezza.

La stessa strada che nei ricordi d’infanzia indicava il rientro nella terra natia, è stata ripercorsa di recente – nell’estate del 2012 - da Cecilia Mangini con Mariangela Barbanente, entrambe originarie della stessa cittadina pugliese e documentariste abituate a stare “dietro” la macchina da presa. Ha così inizio un “viaggio di ritorno” che le porterà “dinanzi” alla camera per riflettere, ancora una volta, sul volto in trasformazione della loro Puglia, per ascoltarne voci di ieri e di oggi, lamenti e perfino inerti silenzi. Un ritorno che ha inizio dai confini di una pianura, adesso disseminata di pale eoliche: con questo malinconico paesaggio, incantato ma non immobile, prende avvio il docufilm “In viaggio con Cecilia”, un’immersione on the road nella terra e nella produzione della prima documentarista italiana. Le riprese esordiscono dai ricordi che prendono forma a partire da quei luoghi. Dal ponte romano sull’Ofanto, simbolo che preannunciava il “ritorno a casa”, a distanza di più di 40 anni dal suo ultimo lavoro Cecilia ha accolto l’invito di Mariangela e accettato di intraprendere un’ennesima sfida, dove coniuga vissuto e passione professionale, senso di appartenenza ad un territorio e coinvolgimento intellettuale-politico.

Il cammino delle protagoniste si snoda in modo imprevisto rispetto all’itinerario inizialmente previsto, perché l’urgenza degli eventi chiama le due registe a fare tappa prima nella città di Taranto poi in quella di Brindisi, rimbalzando fra i due poli industriali per osservarne la diversa sorte. Le affinità del paesaggio accomunano storicamente i due centri urbani: l’orizzonte è solcato dal mare e da ciminiere che ne rendono torbide le acque, il cielo e ultimamente avvelenano i corpi e le coscienze di parte della cittadinanza.

Sullo sfondo un remoto sogno di liberazione dall’immobilismo di una società contadina e da asfissianti relazioni patriarcali per le donne – desiderio di riscatto ritratto in passato proprio da Cecilia Mangini in documentari storici, qui richiamati in immagini di repertorio. Questa speranza nella costruzione di un altro volto del Mezzogiorno, industrializzato e competitivo, è stata però miseramente svenduta insieme alle illusioni di braccianti e pescatori, raccoglitrici di olive e contadine trasformatesi in operaie – metamorfosi già filmate a metà degli anni ’60 da Cecilia in “Essere donne”, “Brindisi 66”, “Tommaso”, da cui vengono riproposti estratti di estrema potenza.

Personaggi di ieri e di oggi, luoghi di repertorio e del presente. Luoghi familiari agli occhi di chi ora ne riprende le metamorfosi; zone dove attualmente soffia un ignoto vento di cambiamento, lo stesso che alimenta le pale eoliche del Gargano ma più a sud spinge polveri velenose nelle acque del mar Piccolo e spira silente in nuove vite ignare. Luoghi e strade battute con lo sguardo di chi torna a indagare il mutamento in atto. Paesaggi e orizzonti custoditi nei ricordi delle due registe, voci narranti di un viaggio che prosegue lungo la Murgia e si arresta nelle periferie di un centro urbano, proprio quando viene travolto dalla tormenta giudiziaria che finalmente ne scopre la svendita ambientale con la connivenza della politica locale. Una giudice ha scatenato quel turbine, anche se da tempo serpeggiava la paura tra gli operai ormai deprivati del senso di appartenenza ad una classe (“Riva non si è comportato da imprenditore ma da padrone”), mentre una lapide è stata incisa per tutti quei lavoratori deceduti nella trappola del ricatto occupazionale. Al silenzio, all’elenco dei nomi incarnati da sagome lanciate al vento, si accompagna il canto funebre delle anziane donne della Grecìa salentina tratto da “Stendalì - Suonano ancora”, prodotto da Cecilia nel 1960 dove al rito di lamentazione si unisce un magnifico testo di Pier Paolo Pasolini, con il quale collaborò in più occasioni.

Gli autobus di ieri e di oggi trasportano stanche membra da ogni zona della provincia, a Taranto come a Brindisi, raggiunta dalla due documentariste in treno mentre dai finestrini si scorge l’incanto della campagna pugliese. Scorrono le immagini di ulivi e trulli, mentre le due donne discorrono, si interrogano sul senso di quanto sta accadendo, sul bisogno di registrare, di non tacere, di “dare voce a chi non ha voce” e in tal modo denunciare. La rabbia s’inasprisce soprattutto quando giungono nella città dove sorse lo stabilimento Petrolchimico Monteshell, un centro post-industriale (ormai vi lavorano meno di 2.000 operai) dove si ha l’atroce sensazione di parlare a bassa voce, perfino delle morti sospette, né c’è stato alcun magistrato che ha posto sul banco degli imputati i responsabili del disastro. Una città inerme, che fatica ad esprimere il proprio dissenso, perfino fra quei giovani che la sera popolano i vicoli e si trascinano in una acritica visione della realtà. Il rifiuto di quella inerzia è un invito provocatorio e irruento a reagire, ad esprimere in qualsiasi forma indignazione (“incatenatevi, imbrattate i muri…”), per non farsi annientare dalla rassegnazione e dalla ignavia.

Una denuncia generazionale che ammette delle eccezioni, né omette il movimento di partecipazione della cittadinanza tarantina: la volontà di compilare un registro tumori è affidata alla voce di una giovane studiosa che ha scelto di “tornare” nella propria terra per mettere a disposizione le competenze acquisite. Ennesimo esempio della necessità di proseguire il viaggio in direzione di un ritorno, per apportare conoscenze e un’altra visione, perché un altro mondo è possibile né le polveri velenose dei parchi minerali si possono tamponare con ridicoli sbuffi d’acqua lanciati da corrotti venditori di fumo. Contraddizioni in termini che possono essere messe allo scoperto soltanto dalla sete di conoscenza e dalla fame di riscatto, ingredienti che possono vincere quella inerzia tanto temuta.

In tutta la sua lunga e intensa avventura professionale, il luogo inseguito dalla pasionaria cineasta è stato quello della critica, filo conduttore di ogni sua sfida permane il rifiuto di farsi irreggimentare, un impegno che prosegue con questo road movie, ennesimo invito a liberarsi da quelle “briglia sul collo” (1974) che minacciano di far abbassare la testa dinanzi ai poteri forti. Briglia che possono legare i corpi, soffocare e assopire le menti, da cui è indispensabile svincolarsi per manifestare il proprio dissenso. Le avvolgenti musiche di Teho Teardo accompagnano le immagini e le parole che popolano questo “viaggio di ritorno” in una terra che ancora chiede di essere ascoltata, anche lì dove l’inerzia sembra strozzarle la voce.

In viaggio con Cecilia è un film prodotto da Gioia Avvantaggiato per GA&A Productions, presentato al 54° Festival dei Popoli di Firenze nel 2013, sezione Eventi Speciali, proseguirà il cammino nelle sale cinematografiche della penisola, con tappe itineranti presso associazioni culturali pugliesi.

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