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In Italia il calo delle nascite non si contrasta con le gravidanze obbligatorie

In Italia il calo delle nascite non si contrasta con le gravidanze obbligatorie

Interruzione legale di gravidanza: la frontiera si è spostata fino a pensare che ostacolare un aborto possa costituire la giusta strategia per risolvere la rilevante crisi demografica del nostro Paese

Martedi, 02/02/2021 - In questi ultimi tempi sempre più le strategie riguardanti i diritti riproduttivi delle donne italiane si connotano non solo ideologicamente ma, anche, territorialmente. Difatti le regioni governate dalla Lega e da Fratelli d’Italia hanno oramai ingaggiato un forte e rilevante contrasto alle donne che si avvalgono dell’interruzione di gravidanza, soprattutto attraverso la RU 486, accusandole di adoperarla come un mezzo per il controllo delle nascite. Continua così il leitmotiv, utilizzato dagli ultraconservatori, per il quale vi sarebbe un naturale ricorso all’aborto come metodo contraccettivo da condannare in un Paese che vede i suoi tassi di natalità fortemente dimensionati. Un leitmotiv ancora di più utilizzato, ove con l’aborto farmacologico non si è costrette ad un intervento invasivo, come quello chirurgico, e soprattutto alla luce delle nuove Linee guida ministeriali sull’utilizzo della RU 486.
In esse è previsto che a) non sia più obbligatorio il ricovero in ospedale per la sua somministrazione, che può avvenire presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale ed autorizzate dalla Regione, nonché consultori, oppure day hospital; b) si allunghi a nove settimane il lasso di tempo in cui potervi fare ricorso.
Le nuove Linee di indirizzo, che hanno aggiornato quelle del 24 giugno 2010, sono passate al vaglio del Consiglio Superiore di Sanità che il 4 agosto scorso ha espresso parere favorevole al ricorso all’aborto con le succitate modalità. Tali disposizioni hanno, però, allarmato il fronte degli antiabortisti, che si adagiava sugli allori dell’alto tasso di obiezione di coscienza presente nelle strutture ospedaliere pubbliche italiane, per osteggiare il ricorso all’interruzione di gravidanza, sia essa volontaria che terapeutica.
In Italia, il 69% dei ginecologi è obiettore, con percentuali più che rilevanti in Veneto, Lazio, Campania e Calabria, con oltre il 70%, mentre in Abruzzo, Puglia, Basilicata e Sicilia si supera l’80% ed in Molise il 90%. Di qui il conseguente attacco alle nuove Linee guida del Ministero della Salute, che hanno pienamente legittimato le nuove procedure di accesso all’aborto farmacologico, che a tutt’oggi in Italia viene scelto solo dal 18% delle donne intenzionate ad interrompere una gravidanza nel rispetto della legge 194.
V’è comunque da dire che una forte accelerazione alle nuove Linee ministeriali era stata impressa dall’emergenza pandemica, che da un anno a questa parte sta assillando i nostri presidi sanitari, e dalla decisione della giunta regionale umbra, presieduta da Donatella Tesei, che aveva revocato la precedente normativa regionale per imporre il ricovero ospedaliero a chi intendesse fare ricorso alla RU 486.
Ideologiche e per nulla scientifiche apparirono da subito le motivazioni della governatrice dell’Umbria, come inutile e ingiusto l’obbligo di ricovero per l’aborto farmacologico, quando per quello chirurgico si procede ovunque da anni con il day hospital.
Il ministro della Salute Speranza si determinò conseguentemente a richiedere il nulla osta del Consiglio Superiore di Sanità, cosicchè si rivisitarono le procedure per il ricorso all’aborto farmacologico.
Contro la nuova normativa lo scorso ottobre la giunta regionale del Piemonte, guidata dal governatore di centrodestra Alberto Cirio, ha emanato una circolare che obbliga al ricovero ospedaliero le donne che vorranno sottoporsi ad esso per il tramite della pillola RU 486. L’intento era più che chiaro, visto che imporre alle donne un’ospedalizzazione di tre giorni avrebbe fiaccato molte di loro nella volontà di ricorrere a questo metodo di interruzione di gravidanza, invece molto più sicuro, economico e meno cruento di quello chirurgico.
Non sono trascorsi neppure tre mesi che in un’altra regione governata dalla destra, ossia le Marche, è stata annunciata la decisione di vietare l’uso della pillola RU 486 nei consultori, sulla scorta del ragionamento per il quale “Le linee guida del ministero non sono una fonte di diritto” (cons. reg. Jessica Marcozzi, Forza Italia). Nella stessa seduta dell’assise regionale si è, però, andati oltre il conflitto di competenza tra enti pubblici, perché il capogruppo di Fratelli d’Italia, Carlo Ciccioli, ha definito quella per l’aborto come “una battaglia di retroguardia che aveva senso negli anni ’60” perché “oggi la vera battaglia da fare è per la natalità”. E, per ribadire meglio la sua tesi, ha aggiunto “Non posso accettare che siccome la nostra società non fa figli allora possiamo essere sostituiti dall’arrivo di persone che provengono da altre storie, continenti, etnie”.
Non bastavano le pseudo teorie scientifiche, che paventavano gravi rischi alla salute delle donne che ricorrevano alla RU 486, adesso la frontiera si è spostata fino a pensare che ostacolare un aborto possa costituire la giusta strategia per risolvere la rilevante crisi demografica del nostro Paese, che ancora una volta strumentalmente si vuole fare passare come invaso da etnie diverse.
Alle posizioni ideali del consigliere Ciccioli potrebbe rispondersi con le parole di Fabio Mosca, presidente della Società italiana di neonatologia (Sin), che in maniera netta afferma che “Ci sono dati chiari che dimostrano come l’Italia sia il fanalino di coda per indice di occupazione delle donne in età fertile. Le donne fanno figli se hanno un lavoro sicuro e una condizione di certezza”.
E’ di ieri la divulgazione del rapporto Istat in base al quale si evince che “l'occupazione torna a calare, nonostante il blocco dei licenziamenti, e colpisce tutte le fasce di età a esclusione degli ultracinquantenni, invece in crescita. Si tratta di un crollo quasi esclusivamente al femminile: in totale i lavoratori scendono di 101 mila unità, ma di questi 99 mila sono donne e solo 2000 sono uomini” (fonte Repubblica). “Al tema della conciliazione del lavoro con le esigenze di una donna che è anche mamma“, pone l’attenzione il presidente della Sin, rimarcando che “In media a 31 anni una donna francese sta pensando al secondo figlio quando un’italiana sta ancora pensando al primo”. Questo accade anche perché in Francia “ci sono politiche fiscali che favoriscono le famiglie numerose. Abbiamo bisogno di politiche che mettano in fila tutte queste necessità”.
Troppo facile, se non intellettualmente disonesto, fare ricadere sulle spalle delle donne, che non intendono legalmente proseguire una gravidanza, la responsabilità della denatalità in Italia. Ma davvero si ritiene che un Paese socialmente sbarrato, in cui la condizione familiare di partenza condiziona fortemente le opportunità per il futuro, un Paese vecchio che delega i gravosi compiti della non autosufficienza sulle spalle delle famiglie e, soprattutto delle donne, un Paese che costringe i suoi giovani ad emigrare all’estero per cercare un lavoro dignitoso negatogli dalla loro patria, un Paese che getta fuori dal mercato del lavoro le donne, come attesta il rapporto Istat, “la vera battaglia sia per la natalità” (Carlo Ciccioli)?
Al dispiacere nel dovere constatare che, purtroppo, le donne continuano ad essere considerate solo come incubatrici di figli, si aggiunge lo sgomento nel riscontrare che la salute delle donne, nonché la loro dignità, viene per l’ennesima volta calpestata.
La contesa politica sul diritto all’aborto farmacologico non è “una battaglia di retroguardia che aveva senso negli anni ’60” (op. cit.), è una questione di civiltà. Costringere le donne all’interruzione di gravidanza chirurgica, intervento invasivo, o, peggio, ad acquistare on line farmaci abortivi di pessima qualità, denota l’imbarbarimento del nostro sistema sanitario, contro cui le donne di tutto gli schieramenti partitici dovrebbero mobilitarsi, unitamente agli uomini che le rispettano.
Conseguentemente si plaude alla decisione della Regione Lazio che pochi giorni fa ha recepito le nuove Linee di indirizzo, emanate dal Ministro della Salute ad agosto 2020 sull’interruzione di gravidanza con metodo farmacologico. Con il documento pubblicato nei giorni scorsi sul Bollettino Ufficiale della Regione, le istituzioni regionali si impegnano di fatto a “rimuovere gli ostacoli all’accesso alla metodica farmacologica, nell’ottica di assicurare a tutte le donne che richiedono l’IVG un servizio che tenga conto dei dati basati sulle evidenze scientifiche, di alta qualità e rispettoso dei loro diritti”.
Per l’appunto, i diritti, che invece le amministrazioni territoriali governate dalla destra, con o senza le forze centriste, intendono denegare in nome di posizioni strumentalmente faziose e oscurantiste.

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