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Imparare dal sud del mondo

Imparare dal sud del mondo

Summit di Jaipur / 1 - "Per raccontare il Summit di Jaipur partirei dai contrasti..."

Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2008

Per raccontare il Summit di Jaipur partirei dai contrasti. Quelli dell’India: estrema ricchezza ed estrema povertà, grande democrazia e divisioni in classi ancora feudale, tecnologia informatica altamente sofisticata e ciclostili a manovella agli angoli delle strade per stampare biglietti di inviti a nozze. E quelli del Summit di Jaipur, ambientato in un albergo di alta classe, predisposto di confortanti hall con aria condizionata, dove si svolgevano i gruppi di lavoro pomeridiano, e nel cui ampio prato verde era stata allestita una grande tenda, per i momenti assembleari, con tanto di ricamature luccicanti e ventilatori che si inceppavano nei pendenti di seta, in netto contrasto con l’India mendicante appena fuori dall’elegante cancello. Ma i contrasti di cui più mi interessa raccontare sono quelli emersi nel corso della conferenza. Già dal primo giorno, dedicato alla condivisione di preghiere, letture, meditazioni provenienti da differenti culture e tradizioni religiose, dopo i toni pacati, spesso non privi di una certa retorica buonista che l’avevano preceduta, Nokuzola Mndende, una Xhosa sud-africana docente di studi religiosi africani all’Università di Cape Town e fondatrice dell’Icamagu Institute, vestita e truccata da indigena, introducendo il suo discorso con una breve danza propiziatoria, ha alzato la voce reclamando l’importanza delle culture e religioni tradizionali delle minoranze africane. Questo intervento, cui ne sono seguiti altri simili, ha fatto emergere la presenza di almeno due anime: quella di chi sentiva di essere lì per dare vita a un messaggio di conciliazione in un mondo in guerra e quella di chi voleva esserci per dar voce alle proprie ragioni sfidando antichi e nuovi colonialismi. Non si tratta di anime necessariamente in contrasto tra loro, ma di “messe a fuoco” su priorità differenti che rischiano di sfociare da una parte in vuota retorica e dall’altra in quella forma di rabbia e dignità al tempo stesso, presenti in moltissime donne e uomini del Sud del mondo.
Nel “circle” sul tema “il ruolo del Mascolino nel fare strada al Femminino” contrasti ed equivoci sono stati a vari livelli. Prima delle relazioni prestabilite uno statunitense che lavora in India ha “pragmaticamente” domandato, avendo verificato la difficoltà delle donne ad emergere in ambito professionale, cosa avrebbe potuto fare lui personalmente: tirarsi indietro? incoraggiare le colleghe? cambiare modalità di gestire il lavoro? Ma la discussione è poi andata avanti su tutt’altro piano. L’ha introdotta Swami Paramatmananda, maestro Hindu, immediatamente criticato da una donna indiana, non prevista in scaletta, che ha fatto presente come i valori femminili cui voleva far strada lo Swami fossero gli stessi che da tempi immemorabili sono causa di tremende ingiustizie a scapito delle donne. Una giovane donna indiana ha alzato la mano dopo di lei, in difesa dello Swami: io che sono nata oggi, ha detto, ho dovuto fare il militare e ho imparato a vestirmi come un maschio e non riesco a capire più dov’è la femminilità in me. Come faccio a trovare il Femminino in un mondo così maschilizzato?
La mattinata più toccante di tutto il Summit è stata sicuramente quella dedicata all’ascolto di racconti dalle zone in conflitto: Israele-Palestina, Africa, Asia. Sentire raccontare la guerra dal punto di vista di chi ne subisce le conseguenze ha il potere di far perdere ogni significato a qualsivoglia ragion politica.
E sentirla raccontare da chi vi è nato e vi lavora per migliorarla fa scoprire un’Africa ricca di importanti realtà che, dal basso, ne stanno lentamente trasformando la condizione. ‘Il Kenya è un paese bellissimo - ha detto Joyce Lwanda Oneko - ricco di potenzialità che dobbiamo imparare a conoscere.’ Per questo ha lasciato alle sue spalle la laurea in legge ed il posto di insegnante a Nairobi per fondare l’organizzazione non governativa “Mama na Dada Africa”, che svolge la sua attività nei villaggi (dove vive la maggioranza della popolazione keniota in condizioni di estrema povertà, senza acqua potabile e con un altissimo tasso di malati di AIDS) ed ha propositi ambiziosi: migliorare il benessere delle ragazze e delle donne in maniera olistica attraverso progetti auto sostenibili rivolti alla realizzazione del loro pieno potenziale e all’espressione delle loro emozioni, offrendo attività e svaghi in cui possano impiegare le loro energie efficacemente. Ogni intervenuta/o alla sessione dedicata all’Africa ha ribadito come questo paese non ha certo bisogno di importare missioni, aiuti umanitari o progetti di sviluppo scritti a tavolino in tutt’altra parte del mondo, ma di crescere in piena autonomia facendo uso delle proprie risorse e prendendo energie da quella miracolosa forza d’animo che è propria di tutti gli africani. La stessa che Philip Hellmich, unico statunitense presente sul palco, ha riscontrato nella sua decennale esperienza di volontario, e che lo fa concludere così “possiamo solo imparare dall’Africa”.

(31 marzo 2008)

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