Documentario - La svolta. Donne contro l’Ilva è il documentario di Valentina D’Amico che racconta l’indignazione di chi vive la falsa alternativa tra diritto al lavoro e alla salute
Soleti Maria Alessandra Domenica, 10/11/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2013
Donne contro. Contro quel muro eretto per blindare il sistema Ilva, che però non le separa dai suoi fumi velenosi. Contro quella connivente barriera di silenzio, sei donne hanno deciso di raccontare e di raccontarsi; sullo sfondo non solo ciminiere, ma anche stralci di un’altra città possibile.
Brevi sequenze sulle origini di quel miraggio di benessere, che inizialmente l’industrializzazione portava con sé ma per Taranto ha condotto ad un amaro risveglio: un ritratto realizzato da Valentina D’Amico nel documentario ‘La svolta. Donne contro l’Ilva’, girato nel 2010 e “menzionato” in più di un festival cinematografico. Ciononostante la sua distribuzione resta confinata in un ristretto circuito. Essenziale, senza eccessi, è un racconto non urlato, che si affida alla potenza della parola, quella delle protagoniste, mentre si susseguono le immagini dell’acciaieria silenziosamente pervasive come i suoi fumi.
Nulla viene omesso, tanto meno gli aspetti più agghiaccianti: la camera entra all’interno della palazzina Laf (laminatoio a freddo), dove si è tentato di ridurre ben 70 dipendenti a delle “maschere”, di annientarli come persone, per indurli così a dimettersi in quanto diventati “scomodi” in azienda; viene mostrata la arrogante volontà di mettere tutto a tacere da parte del “padrone”, che invece elargisce premi per contenere le denunce di infortuni e dare così un’immagine mistificata dell’ingranaggio. La macchina da presa sale sull’autobus che conduce i lavoratori all’interno di quella immensa cittadella di altiforni: una tenue rassegnazione sembra essersi insinuata in alcuni di loro, non in tutti, non più. La reazione si fa sentire dall’esterno in chi assiste alle conseguenze di quella trappola, mogli, madri, in chi respira quell’“aria svenduta”: l’indignazione ha la voce delle donne, che prendono la parola per ribellarsi al silenzio.
Storie diverse, tutte legate da un comune filo rosso che le avvita al medesimo infernale congegno. Margherita Pillinini, ex impiegata Ilva, racconta le ingiunzioni di declassamento per indurla a licenziarsi: destinata ad essere internata nella palazzina Laf vi scampa solo perché nel frattempo il giudice ne aveva disposto il sequestro. Eppure Francesca Caliolo continua a credere che non ci sia un solo modo per fare il datore di lavoro! Moglie di Antonino Mingolla (interpretato da Alessandro Langiu, unico attore professionista), operaio Ilva soffocato da una fuga di gas mentre sostituiva una valvola, Francesca è ora impegnata nella Rete per la sicurezza nel lavoro; suo è il testo “La svolta” scritto dopo il mortale incidente e da lei inviato alla regista.
Al suo racconto si intreccia quello di Patrizia Perduno, compagna di Silvio Murri, un altro operaio Ilva schiacciato da un ponteggio, al cui processo Riva non è stato neanche imputato, ma ha pagato con la condanna ad un anno di reclusione l’operaio che lavorava con lui! Si aggiunge la voce di una madre, Vita Tinella, che nello stabilimento ha perso il figlio Paolo Franco. Tutte si sono costituite parte civile nei processi per quegli incidenti, dove la responsabilità non è stata attribuita all’imprenditore o ai dirigenti ma a chi è delegato alla sicurezza.
Nessuna relazione è stata attestata tra il gettito delle polveri nocive e l’aumento del numero dei malati di cancro in chi vive nelle zone limitrofe, né con la crescita esponenziale di altre patologie. Nel documentario però si lancia un segnale di questo disastro in corso attraverso due testimonianze: Anna Carrieri, abitante del quartiere Tamburi da 48 anni, ha perso l’uso delle gambe, improvvisamente, senza alcun precedente sintomo. Le è stata diagnosticata una “mielite trasversa”, il suo sangue è risultato pieno di metalli. A Caterina Buonomo, figlia di un dipendente Ilva e mamma di Antonio, è stata comunicata la diagnosi di autismo quando il suo bambino aveva solo 18 mesi di età, allora l’isolamento del piccolo sembrava dover inghiottire l’intera famiglia, tuttavia il suo sguardo vuole infondere coraggio a chi come lei deve decodificare questo mondo a coloro che non hanno gli strumenti per farlo.
I racconti sono accompagnati dalle note di brani che sembrano entrare e vibrare sotto la pelle di chi si fa spettatore di quelle immagini: un filmato che lascia attoniti, ma allo sconcerto “deve” seguire la rabbiosa volontà di sapere, di spezzare il muro del silenzio, di fermare quel meccanismo. In attesa di una “decisione politica” sulla sorte dell’acciaieria, la presa di coscienza individuale è un dovere morale affinché tutti/e siano parte attiva della svolta.
Il coinvolgimento della regista Valentina D’Amico si può seguire dal blog http://lasvoltadonnecontroilva.wordpress.com ma anche dall’indignazione che trapela dalle sue parole. Senza esitazione ha risposto ad alcune nostre domande.
Una militanza di genere: le donne sono in prima linea nelle associazioni e nelle manifestazioni, secondo te la voce dell’indignazione e della resistenza alla rassegnazione è prima di tutto femminile?
Gli operai subiscono il ricatto occupazionale. L’azienda minaccia licenziamenti, le istituzioni sono conniventi nella minaccia. A Genova più di 10 anni fa è stato chiuso il reparto a caldo dell’Ilva e nessuno degli operai è stato mandato a casa. Dopo un primo periodo di cassa integrazione hanno seguito dei corsi di aggiornamento professionale e sono stati tutti reimpiegati nelle successive opere di bonifica.
A Taranto da 3-4 anni si è costituito il comitato “Donne per Taranto” su emulazione del comitato “Donne per Cornigliano” che a suo tempo contribuì tenacemente a diffondere la cultura del lavoro sicuro, dell’ambientalizzazione, della salute e della vita innanzitutto. A Taranto la strada è lunga, lunga perché i partiti, i sindacati sono complici del disastro socioeconomico e sanitario.
Perché le donne? Perché subiscono due volte di più. Perdono figli e mariti in fabbrica, si ammalano a loro volta.
Quale muro impedisce la distribuzione e la maggiore visibilità del filmato, in particolare sul piccolo schermo?
Fortunatamente la televisione non è il solo canale di informazione: il documentario gira l’Italia nelle serate organizzate dalle associazioni, da alcune sezioni locali di partiti, dai Comuni, dalle università, le scuole, i cinema. Ha girato in vari festival del cinema ottenendo premi, menzioni speciali.
La svolta arriva fino al 2010, prima delle sentenze e degli scandali che poi si sono susseguiti, a cui si continua a assistere implacabilmente. Con quali sentimenti assisti agli ultimi avvenimenti? Ti inducono a voler continuare il racconto?
No, non ho intenzione di proseguire nel racconto. Non è più il momento della cronaca, della denuncia. Tutto quello che doveva esser detto, da me, da noi, dalle associazioni ambientaliste è stato detto. Tutto quello che doveva essere denunciato, è stato denunciato.
Non sconforto - proprio di chi si arrende - ma certamente provo rabbia, contro chi (le istituzioni a tutti i livelli) si rende complice di un’azienda che opera in spregio di ogni norma di legge a tutela della salute, dell’ambiente; complice di un modello di sviluppo che antepone il profitto alla stessa vita umana. È dunque arrivato il momento di intervenire seriamente a difesa della salute e della vita.
Attualmente La Svolta prosegue la marcia in Puglia, con una serie di proiezioni e dibattiti a sostegno di Marco Zanframundo (licenziato dall’Ilva a seguito delle sue denunce sulla sicurezza) e degli operai della ditta Emmerre: ad ottobre ha fatto tappa a Lecce, la prima di una serie di iniziative promosse dal Collettivo "Guevara" di Cisternino. Tra le proiezioni già in programma una a Bari, presso l’ex-Socrate a novembre, ed una a Cisternino (Br) a dicembre. Le date verranno indicate nel sito www.noidonne.org e sul blog lasvoltadonnecontroilva.wordpress.com
Lascia un Commento