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Illusorio potere delle barriere

Illusorio potere delle barriere

EUROPA (in)DIFESA/2 - Sono una cinquantina le trincee o le fortificazioni erette nel mondo per separare gruppi di diversa etnia e credo religioso, o per far fronte all’ondata migratoria che tanto preoccupa l’Ue

Emanuela Irace Mercoledi, 27/04/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2016

Le fortezze sono generalmente molto più dannose che utili” Niccolò Machiavelli



Un elegante grattacielo con terrazze a raggiera. I balconi ampi con piscina privata e piante ornamentali fuoriescono dalla struttura disegnando un’elica simile al DNA. In basso campi da tennis e strutture sportive immerse nel verde. A delimitare quest’angolo di bellezza abitativa sospesa corre un muro che globalmente copre 11 km della città. Dall’altra parte una delle tante favelas brasiliane con baracche ammonticchiate l’una all’altra e fogne a cielo aperto. Il contrasto è feroce ed eloquente come solo una fotografia riesce a dare. L’immagine è di Rio del Janeiro ma potrebbe essere scattata anche altrove. Dappertutto nel mondo la separazione tra ricchi e poveri può venire marcata da barriere in cemento e filo spinato. Ovunque la disperazione economica può essere insopportabile e pericolosa da guardare tanto è diventata estranea e non assimilabile.

Come a Lima, la capitale del Perù, nel quartiere di San Juan de Miraflores: 10 km di recinzione per allontanare gli ultimi nella scala sociale da chi vi sta in cima, rendendo assurda e complicata la vita soprattutto alle donne, costrette a percorrere molta più strada per procurarsi acqua e farina. Sono una cinquantina le trincee o le fortificazioni erette nel mondo per separare gruppi di diversa etnia e credo religioso, o per far fronte all’ondata migratoria che tanto preoccupa l’Ue. Dalla frontiera Usa-Messico a quella tra India e Pakistan. Dalla divisione di Cipro e Corea alle nuove barriere in Ungheria e Bulgaria. In Arabia Saudita le fortificazioni nel deserto mirano a tener lontane le popolazioni shiite con strutture in cemento alte più di tre metri ai confine con lo Yemen.

In Marocco e nord Africa migliaia di km di deserto vengono scavati per creare trincee e rendere impossibile l’attraversamento agli automezzi di terroristi e contrabbandieri. Ai confini con la Libia crescono ormai quotidianamente le fortificazioni per contrastare la marcia delle pattuglie jihadiste verso il nord del Maghreb. E poi ci sono i muri politici voluti dai Governi in ambito neo-coloniale, recinzioni che blindano letteralmente la vita a intere generazioni, come i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, come i Sahrawi, “gated communities”. Popoli senza Stato, segregati e ridotti a sopravvivere con aiuti umanitari in prigioni a cielo aperto per decisione unilaterale del Governo di Israele o del Re del Marocco. Ancora una volta sono le donne le principali vittime nei regimi di apartheid. Donne che subiscono doppiamente la violenza dello Stato e della famiglia. “A Gaza sono le prime vittime del disagio sociale, preda di violenze e abusi che quando non uccidono ammalano” - spiega un responsabile della Croce Rossa -. Sono il bersaglio della frustrazione di mariti e familiari, uomini che non lavorano e che passano la giornata in cattività come bestie”.

Tra le popolazioni arabo berbere del Sahara Occidentale le donne sono le più perseguitate da esercito e polizia. I rapimenti sono all’ordine del giorno. Chi riesce a fuggire dopo anni di torture nelle prigioni segrete scavate nel deserto, diventa attivista politica. Testimone dell’orrore, come le protagoniste del documentario patrocinato da Amnesty International: “Solo per farti sapere che sono viva”. Costruito a metà degli anni ’80 dal Governo marocchino per mantenere il controllo su un territorio strategico ricco di miniere di fosfati, il muro del Sahara Occidentale è tra i più lunghi del mondo. Oltre 2700 km di filo spinato, bunker, fossati e campi minati. Emblema dell’architettura dell’occupazione e simbolo della vergogna in epoca di post-nazionalismo. Migliaia di cittadelle all’apparenza impenetrabili vorrebbero ingenuamente realizzare quell’eterno bisogno di sicurezza che lo Stato non potrà mai soddisfare. Eppure, come scrive Bauman, è da ambienti etnicamente o socialmente omogenei che si smette di imparare a vivere: “Più a lungo le persone rimangono in un ambiente uniforme (…) più perdono quello sforzo di capire, di negoziare, di trovare un compromesso che impone il vivere tra e con le differenze”.

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